“Nûn”, una lettera in mezzo al mare
Viaggio tra le zattere possibili all’orizzonte dell’Intelligenza Artificiale
“Nûn”, una lettera in mezzo al mare
Viaggio tra le zattere possibili all’orizzonte dell’Intelligenza Artificiale
Tra gli argomenti più in voga, a cui assistiamo inermi ascoltando i media alla televisione, alla radio, al computer o sul nostro cellulare, riecheggia come un disco rotto l’avvento dell’era dell’Intelligenza Artificiale, denominata “AI”, nella consueta abbreviazione anglofona che genera l’inversione dell’aggettivo, anteposto al sostantivo “intelligenza”. Diversamente da quello che succede nella lingua italiana, dove l’aggettivo segue il nome quando ha una funzione restrittiva e lo precede se ha una funzione descrittiva.
La lingua inglese in tutta Europa e nel mondo, dal dopoguerra in poi, è entrata nella nostra vita, soppiantando il francese e, ancor prima, il latino. Questo fenomeno, apparentemente solo linguistico, che ha superato ormai tre quarti di secolo, non è solo una questione di moda ma un’importante trasformazione, una sorta di traghetto da uno stato delle cose ad un altro, specchio di una coscienza e un metodo nuovo di tradurre, guardare, vivere, ascoltare, ricordare ed elaborare, ben oltre dinamiche generiche nazionaliste o stataliste.
La lingua si apprende sin dalla più tenera età ed è la massima parte della complessa tessitura delle proprie relazioni, della propria vita, dinamica e complessa al tempo stesso. In poche parole, la lingua è la lente d’ingrandimento con cui guardiamo il mondo. E l’inversione dell’aggettivo piuttosto che del sostantivo la dice lunga. La scelta di racchiudere in due vocali, “A” e “I”, il futuro di un mondo migliore, più comodo, più sicuro perché fuori dalla portata dell’uomo, dall’errore e dalla sua dicotomia tra il male e il bene, se da un lato rassicura, come l’avvento della lavatrice, della lavastoviglie, della prima teleferica o del primo treno telecomandato, dall’altro preoccupa per il rischio di perderne il controllo.
Ecco che l’esercizio del libero arbitrio, da potenziale bagaglio informatico, via via integrabile, della più performante Intelligenza Artificiale, ci attrae ma genera anche il timore di scoprire, in formato robotizzato, la parte peggiore dell’istinto umano. In sintesi, abbiamo paura di noi stessi, di quella parte più egoista e autodistruttiva, e il dubbio che il nostro sostituto, l’alter ego A.I., possa essere sprovvisto di quella umanità che gli antichi chiamavano “pietas”. Tutti ascoltiamo più o meno interessati o assuefatti, nella convinzione che questa fantomatica “Era dell’A.I.” ci travolga appieno o possa, egoisticamente, riguardare solo le generazioni future, non riscuotendo così, in certi casi, un vero e concreto interesse.
Lasciamo così che i nostri sensi, tra cui la vista e l’udito, si facciano trasportare in un’azione quasi passiva di accoglimento della notizia, come la scuola primaria del grande schermo dell’era post-moderna: la televisione. Alcuni, i più temerari, si spingono a trattare l’argomento in spensierate serate a tavola o in un salotto gremito di amici, i più volenterosi a fare conferenze e persino biennali d’arte, come la prima edizione della Biennale di Arte Internazionale Contemporanea dell’Albania a Durazzo nell’ottobre 2024, la Biennale Architettura di Venezia 2025 o il Festival delle Filosofie di Palermo alla sua settima edizione. Ma cosa preoccupa tanto?
Il nocciolo del problema risiede proprio nella perdita della coscienza umana. La coscienza figlia di secoli e secoli di storia che non finisce mai di crescere e di espandersi, errando, correggendo e riassestando il colpo di generazione in generazione, senza mai dare per compiuta la lezione della vita. Ma in cosa consiste la coscienza umana? Come possiamo racchiudere il pensiero e l’indole umana in un unicum, anche solo metaforico, permettendoci una licenza poetica? Credo che la principale fonte della coscienza umana, simile ad un fiume in piena, sia la storia, il patrimonio culturale dell’uomo, le arti, la scienza, la musica, la letteratura e anche la tecnologia. Nasce come un insieme di ruscelli che alimentano lo stesso fiume, che non si arresta mai e che continua a produrre ed a riprodursi.
Ma il connotato comune alle varie “piattaforme” di discussione, che siano monologhi o dialoghi, pubblicazioni o conferenze, è la sensazione di un palpabile concreto distacco teorico nell’avvertire la questione come un intangibile problema pratico.
Necessitiamo di sedicenti miti moderni o delle dichiarazioni allarmanti di capi di stato per prendere la questione più seriamente e, colti da un leggero sobbalzo, lasciarci solleticare dal brivido di paura. Dopo una manciata di secondi, però, torniamo alla nostra vita di sempre e declassiamo il problema. Perfino il rischio dell’esercizio di un potere concreto di simultaneo uso di testate nucleari in tempo di guerra, il nostro tempo, non ci fa concretamente paura, perché il nostro immaginario vede la sua realizzazione, se pur possibile, lontana e solo teoricamente futuribile.
In realtà, siamo già immersi nell’Era dell’intelligenza umana artificializzata, surrogata e sintetizzata, come il concentrato racchiuso in un piccolo tubo di pomodoro, dentro una grande scatola che emula i nostri nervi cranici, motori, sensitivi e misti in un labirinto di cavi.
E così la piattaforma di discussione si trasforma in una sorta di zattera in balia di un mare sempre in tempesta, dove le onde sono le notizie, le informazioni che da ogni dove ci rivelano tutto e il contrario di tutto, rimbalzando da ogni parte del globo, dilatando le nostre umane ventiquattr’ore in duecentoquaranta ore, impossibili da digerire e da metabolizzare.
A questo punto, cari lettori, mi perdonerete se scelgo la metafora della zattera, figura cardine e cornice del cuore delle riflessioni di questa nostra rubrica di inizio estate, un pavimento flottante di fortuna composto da grosse travi di legno unite da fragili cime, per salvare il genere umano. Se da un lato, per ironia e diletto nel non prendersi troppo sul serio, rammento l’iconica raffigurazione di una coppia solitaria in mezzo al mare, all’ombra dell’unica palma rimasta, delle barzellette della Settimana Enigmistica, dall’altra desidero introdurvi nella “dialettica” dell’arte ma soprattutto della ricerca, che può essere alla base della professione dell’artista, nel passato come nella nostra contemporaneità.
L’artista, nel vivere il suo tempo, si muove su un pentagramma di emozioni che lo portano, in certi casi anche inconsapevolmente, ad anticipare paradigmi, incognite e problematiche future, a tratti impersonificando le anticipazioni di una moderna Cassandra, come epiloghi o conseguenze di futuribili fatti storici. La sua opera può illustrare stupore, meraviglia ma anche preoccupazione o denuncia di qualcosa che non approva o che velatamente teme possa accadere.
Tanti artisti che, con lungimiranza e capacità di anticipare i tempi, hanno perfettamente reso il senso di paura e di precarietà che anticipa l’avvento di una nuova tecnologia, l’eventualità di una scelta sbagliata e delle conseguenze derivanti da essa, tra i pro e contro, ricordiamo la gigantesca zattera di ben 35 metri quadrati, distribuiti in quasi cinque metri per sette, Le Radeau de La Méduse, uno dei massimi interpreti del romanticismo francese, Théodore Géricault, conservata nelle sale del Louvre, e all’incredibile The schip of Fools di Federico Solmi, artista italoamericano pioniere della video arte, appartenente alla scuderia della collezione d’arte contemporanea della Philips Collection di Washington ed esposta a Venezia durante la 60a Esposizione Internazionale di Arte Contemporanea.
Si può dire che la lungimiranza accomuna molti artisti del passato con quelli di oggi e quelli che verranno dopo di loro, intesa come una sorta di capacità di anticipare i tempi e le conseguenze degli accadimenti annunciati. Si pensi al legame stretto e indissolubile dei futuristi ad inizio secolo, incantati dagli effetti dell’elettricità sulla vita quotidiana, dalle macchine ai primi tram e ai primi ascensori. L’innovazione ha ispirato gli artisti a dare un’immagine persino del rumore assordante del motore a scoppio e del movimento del pistone, per tradurre l’effetto meccanico motrice dell’energia termica generata dalla combustione di una miscela di carburanti ed aria.
Altri, invece, hanno preferito restituire ai posteri, nelle loro opere, il senso di paura e di precarietà che anticipa l’avvento di una nuova tecnologia, l’eventualità di una scelta sbagliata e delle conseguenze derivanti da essa, tra i pro e contro. Facciamo dunque astrazione e lasciamo che le onde della fantasia cullino i nostri pensieri.
È l’inizio di un nuovo viaggio. L’arte non finisce mai di sorprenderci e di offrire punti di vista e riflessioni nuove. L’arte è la continua sperimentazione di un linguaggio capace di rinnovarsi in aderenza con la realtà, risultando sempre nuovo, giovane nella sua contemporaneità, per poi entrare nella storia e dare il passo a futuri e futuribili fenomeni linguistici. Mai come in questo secolo la tecnologia è entrata nell’arte e nel modo di fare arte e, obbligatoriamente, ha incrementato il suo dizionario. E quando parliamo di dizionari ed enciclopedie, non possiamo prescindere “dall’alfabeto”, le cui lettere, una volta assemblate, compongono le parole, i suoni e i pensieri dell’uomo.
Dopo aver incorniciato la “zattera dell’umanità” in alcune delle sue declinazioni più curiose, in un’estate che ha stentato a partire e prendere il vento, non posso resistere alla tentazione di parlarvi di “Nûn“, la gigantesca imbarcazione concepita e disegnata dal grande architetto navale e designer Aldo Cichero, classe 1944.
Nûn, un nome e un destino, come suggerisce la celebre locuzione latina “nomen omen”, racchiudendo in sé il significato di un’opera architettonica ed ingegneristica di uno dei più grandi progettisti della storia della nautica mondiale, vincitore di numerosi premi internazionali, capace di superare i meri canoni estetici e ingegneristici navali e proporre una grande “zattera” futura, un superyacht di 120 metri concettualmente capace di raccogliere la testimonianza e la complessa eredità del passaggio dell’uomo sulla terra. Un museo galleggiante abitato da opere d’arte, capace di dare il senso e la traccia della produzione millenaria dell’umanità in una visione atemporale.
Il progetto di questo incredibile transoceanico yacht è di per sé un grande concept, con diverse potenziali forme di realizzazione, che racchiude in sé diverse e convergenti grandi sfide: realizzare un natante di dimensioni ciclopiche rispettoso della natura e non inquinante, racchiudere il meglio dell’arte umana, renderla materialmente fruibile a tutte le coste del mondo e infine preservarne il DNA nel caso in cui l’umanità dovesse estinguersi.
La prima sfida, pensata da Cichero più di un decennio fa, mira alla realizzazione di un superyacht altamente tecnologico sul piano meccanico ed energetico direttamente proporzionale alla sostenibilità ambientale della sua andatura. In poche parole, il grande architetto, celebre per la sua visione interdisciplinare applicata alle sue forme progettuali, ha disegnato uno scafo in ogni suo particolare, mirando all’autosufficienza energetica, proponendo un’economia circolare all’interno del natante stesso in grado di tenere conto delle potenzialità presenti in mare nel corso della navigazione. Il traguardo che si era preposto era l’autonomia di crociera e la contemporanea emissione zero di idrocarburi e di inquinamento atmosferico e acqueo.
Ha così progettato i primi alberi retraibili e vele solari per poter ottimizzare al meglio due elementi, il sole e il vento, convertendoli in energia potenziale in base alle necessità. Con il piano velico di questo prototipo, Cichero ha combinato la classica propulsione diesel-elettrica e/o ad idrogeno con generatori di energia provenienti dal moto ondoso che circonda la carlinga della nave. La sua opera è una delle prime progettualità al mondo che ha introdotto pratiche ecosostenibili e tecnologie, ottimizzando ed implementando la gestione energetica non solo con i pannelli solari e i generatori eolici ma anche proponendo soluzioni innovative che tengano conto dell’estetica del luogo e della volontà di salvaguardare la bellezza del pianeta dagli abissi del mare sino alla punta dell’albero maestro.
Non si vive di sola energia, tra le possibili andature di crociera, Cichero ha voluto valorizzare anche la bellezza della natura e portarla a bordo per una migliore ossigenazione dello spazio in movimento, oltre che per una decorazione neorinascimentale dello stesso. E così ha proposto un’area di suolo vegetale che non è a diretto contatto con il suolo naturale.
Con sapiente consapevolezza, figlia di una saggezza e di anni di esperienza tra architettura navale e terrestre, ha abbandonato la mera funzione scenografica di quello che potrebbe essere definito il giardino pensile flottante, comunque innovativo per la sua epoca, per guardare anche qui ad una funzione circolare di riciclo, di preservazione di un ambiente sano e totalmente autosufficiente nella creazione e riproduzione di materie prime vegetali per la sopravvivenza della specie umana.
Ha così predisposto delle vere e proprie terrazze, ossia dei veri e propri strati vegetali collocati su supporti strutturali impermeabili, utilizzando il riciclo di materiali non biodegradabili e asserviti ad un complesso sistema di giardini pensili dotati di irrigazione artificiale, attraverso la simultanea desalinizzazione e conversione dell’acqua del mare in acqua potabile, generando un microclima terrestre flottante sul mare.
La genesi di questo complesso progetto racchiude in sé la rielaborazione e lo studio di grandi della storia, tra governatori, architetti e urbanisti del passato, dal re babilonese Nabucodonosor II, in assoluto il primo che ebbe l’idea di rinverdire i tetti del suo palazzo, come anche gli antichi Romani, abili costruttori di giardini pensili come il famoso mausoleo di Augusto del I secolo a.C. o la Villa di Tivoli dell’imperatore Adriano del II secolo d.C., di cui possiamo ancora ammirare gli eleganti cipressi che hanno resistito ai millenni di storia umana e naturale.
La cultura dei giardini pensili, però, ha una lunga storia, in particolare nel Rinascimento, basti pensare ai sontuosi giardini del palazzo di Guido di Montefeltro ad Urbino o ai giardini di Palazzo Piccolomini a Pienza, ai giardini di Villa Madama a Roma o al Giardino dei Boboli a Firenze, e ancora all’orangerie di Versailles o ai terrazzamenti del fontaniere Bernini, fratello del celebre scultore, a Villa Barbarigo di Valsanzibio, nei Colli Euganei.
Ma per restare in tempi più recenti, ossia al XX secolo, gli architetti che più hanno rimodulato la funzione primariamente di protezione del soffitto della domus da ogni intemperia proveniente dal cielo, in funzione di una promozione ecologica oltre che estetica, sono certamente, tra i tanti, Von Rabitz, Gropius, Frank Lloyd Wright, Roberto Burle Marx, Ernesto Basile, Le Corbusier, Henri Sauvage e Friedensreich Hundertwasser.
Non potendo apprezzabilmente parlare di tutti i grandi scienziati dell’architettura che, con occhio artistico ed innovativo, nelle loro diverse piccole e fondamentali pratiche, hanno saputo valorizzare il mondo vegetale nella vita dell’uomo trasmettendone il valore della salvaguardia oltre che dell’utilizzo nutritivo, scelgo di riportare le parole di Le Corbusier: “il tetto giardino restituisce all’uomo il verde, che non è solo sotto l’edificio ma anche e soprattutto sopra“.
Ma senza spingersi nello studio dell’architettura dei grandi del passato, nel silenzio delle culture africane, sudamericane, delle isole transoceaniche tramandate nei millenni senza fama e senza gloria, rinveniamo in villaggi dimenticati e dispersi nei meandri del mondo la buona pratica di umili abitazioni, per lo più capanne, modestamente ricoperte con piote di terra ed erba.
La visione di Cichero, però, si differenzia da coloro che lo hanno preceduto concentrandosi nell’estetica delle diverse forme di conversione funzionale dei tetti, focalizzandosi su una prospettiva unica: ripopolare di verde quanto più possibile sia stato sottratto alla terra da costruzioni in pietra, marmo, paglia o calcestruzzo.
Nel caso di Nûn il tetto, i balconi, le balaustre e anche gli interni aggiungono crosta umana artificiale, e quindi ossigeno e sintesi clorofilliana, alla preesistente crosta terrestre, generando terre “emerse” dalla creatività visionaria di un grande architetto, che ha saputo fare tesoro dell’esperienza umana della scienza delle costruzioni unendola alle altre scienze come l’arte, la navigazione, l’agronomia, la botanica, l’ingegneria, la sociologia, l’antropologia, l’astronomia e la scenografia con umiltà ed ingegno.
Nûn si trasforma così in una zattera di salvezza non tanto di lusso, come il connotato superyacht certamente auspica, ma un paradiso terrestre flottante, una zattera non della salvezza alternativa ad una barca caduta a picco ma un concentrato del sapere dell’uomo capace di racchiuderne il benessere in senso globale, di vivere e di qualità della vita.
La seconda e la terza sfida di Nûn sono di concepire il primo grande museo galleggiante e di renderlo materialmente fruibile, facendolo approdare in tutte le coste del mondo. L’idea è di un museo galleggiante pronto a salpare che custodisca e renda concretamente visibili le opere più importanti della storia dell’umanità, permettendo a tutti di visitarlo ad ogni suo approdo. Toccare con mano l’opera, vederla dal vivo, incardinerebbe come una sorta di tendenza controcorrente rispetto all’era digitale della scannerizzazione e riproduzione 3D. Valorizzare la copia originale potrebbe essere la vera sfida.
Questo obiettivo porta in grembo una doppia finalità, ossia la democratizzazione reale dell’arte e la prevenzione della sua distruzione, salvaguardandola in caso di guerra o di cataclismi annunciati. Una specie di Arca di Noè dove, oltre all’umanità e al mondo animale e vegetale, si pensi di portare la migliore produzione artistica di tutti i tempi, per non dimenticare il nostro passato perché parte della nostra memoria.
Da un lato lo spostamento delle opere all’interno di una nave museo diffonderebbe il beneficio della sua materiale contemplazione, relegando al giusto posto di surrogato la mera riproduzione virtuale. D’altro canto la possibilità di allocare le opere d’arte in nicchie sicure, dotate di sensori basculanti al volteggiare delle onde, in previsione dell’oscillazione dei basamenti, comporterebbe la possibile migliore salvaguardia di opere d’arte, dall’archeologia alla più recente arte contemporanea, in caso, non proprio peregrino, di rischio di scoppio di un conflitto armato mondiale.
Come suggerito proprio da Aldo Cichero, Nûn potrebbe essere un galleria d’arte “eco friendly”, a cui potrebbero concorrere tra le file dei più generosi filantropi, come possibili attori, non solo i classici collezionisti d’arte che già di fatto addobbano i loro superyacht con opere d’arte di valore ma una rete di Stati, parte dei continenti o, in una visione più ottimista, del mondo intero, che potrebbero accordarsi per creare uno o più musei flottanti capaci di concentrare alcune opere iconiche della produzione artistica rappresentative della storia dell’arte, universalmente parlando.
Nûn, oltre che una grande nave, si tramuterebbe in una sorta di ideale ponte tra le culture, dove il pubblico potrebbe sperimentare senza ostacoli geografici il potere dell’arte: un potentissimo mezzo di comunicazione, una forma di linguaggio che non conosce frontiere e barriere di sorta, se non i limiti ideologici della censura temporale.
Ma non gridiamo troppo alla vittoria, perché ci troviamo pur sempre nell’era della clonazione, da quella delle pecore a quella delle opere d’arte, sino a quella umana della diffusione del metaverso. Inoltre, per mettere d’accordo tutti i ministri della cultura e i soprintendenti di tutte le regioni e gli Stati coinvolti, potenziali prestatori di opere, dovremmo attendere anni ed anni, affrontando mille difficoltà, per ottenere i numerosi scarichi di responsabilità generati dall’onerosità del costo dell’assicurazione per ogni opera.
Ecco che la tecnologia ci arriverebbe in soccorso, risolvendo i molteplici giustificabili problemi, sostituendo le opere con il clone in scala reale, sosia autentico dell’opera originale, attraverso un multiplo realizzato nei materiali più disparati, dai più preziosi ai più biodegradabili, rendendo fruibile l’estetica e l’iconografia dell’opera d’arte piuttosto che la sua concreta autenticità.
Questa impostazione potrebbe essere particolarmente interessante per la capacità di raccogliere e preservare, non si sa mai, il DNA di ogni opera, ossia la scannerizzazione in altissima definizione delle grandi opere d’arte, classificate come il patrimonio immateriale dell’umanità, che, a scelta, potrebbero addirittura essere realizzate in modo virtuale con una proiezione ologrammatica verticale, superando ogni barriera logistica o allocativa perché frutto di una visione ottica controllata che non graverebbe nemmeno di un kg sul peso della barca.
Ma le prime tre funzionalità, intrecciate tra loro, ci fanno riflettere sull’ultima finalità possibile, quella più provocatoria, che, partendo da un’ipotesi apocalittica, è all’origine di questo progetto di superyacht, ossia la creazione di un nuovo mondo senza esseri umani, che ha condotto il grande architetto Aldo Cichero a ideare Nûn quando ha concorso nel 2016 alla selezione del bando interdisciplinare della Biennale di Arte Contemporanea Internazionale a Palermo, la Bias Institute.
Idealmente Nûn rappresentava la proiezione artistica di un’ipotetica nave fantasma, seconda solo all’epica Arca di Noè, in cui il tema della creazione veniva intimamente legato al come e dove partire per creare un nuovo mondo. L’animo artistico di Cichero, con ghigno ironico, mosse i passi della sua ricerca non dalla rappresentazione di una creazione astrattamente possibile ma dalla certezza di una distruzione del mondo e dalla gestibilità di una creazione, astrattamente parlando, di un mondo senza uomo che preservi l’integrità ed identità delle sue gesta, solo quelle buone s’intende.
Abbandonando così l’era dell’antropocentrismo, “l’umanità” di Cichero non merita di salire sull’Arca di Noè di questo secolo: uomini, come carne umana abbandonata in cima al molo, sulle rive del mare, lungo le spiagge come zattere, questa volta terrestri, mentre implorano ad una “saggissima” intelligenza artificiale di salire e di salvarsi, che, potendo scegliere, opta per il male minore: lasciare l’animale più parassita della terra a terra, avendo oramai appreso con la massima certezza che solo l’arte potrà salvare il mondo.
“ﻥ” Giunti ormai al termine di questo brevissimo viaggio a vele spiegate, bordati dalla cornice del mare, finalmente vi svelo il mistero del nome di questo superyacht. Nûn non è un nome scelto a caso ma la fonetica di una lettera sia dell’alfabeto arabo che di quello ebraico. In quello arabo, nûn conclude la prima parte dell’alfabeto, composta da ventotto lettere, posizionandosi al quattordicesimo posto con il valore numerico cinquanta, mentre nell’alfabeto ebraico nûn è al ventiduesimo posto. In entrambe le tradizioni è molto più di una lettera. Ricorda la forma di una balena nel primo e di un serpente nel secondo, accordandosi d’altronde con il senso originario della stessa parola nûn, che significa “pesce“. È composta infatti dalla metà inferiore di una circonferenza con al centro un punto, come una grande arca galleggiante sulle acque. Il punto è il germe dell’immortalità, il nucleo nascosto del DNA dell’umanità indistruttibile che sfugge a tutte le dissoluzioni esterne.
Nûn è molto di più di un progetto virtuale navale, è una lettera in mezzo al mare, capace di ricongiungere idealmente la storia passata a quella presente creando un ponte per il futuro dell’umanità. Da un lato l’antichità di una lettera di due culture antichissime, sopravvissute alla storia, nate e cresciute nella medesima area geografica della Terra, quello che oggi definiamo il Medio Oriente, tra il Sinai, la Giordania e la Cisgiordania, emblema di due culture spesso in lotta tra loro.
Il nome del grande battello scelto da Cichero non è casuale. È l’essenza massima del progetto capace di racchiudere la sintesi della storia umana, con un’incredibile opera di comunicazione e di agglomerazione tra i popoli, nella navigazione dello stesso mare della vita.
Due lingue, l’ebraico e l’arabo, che trascinano al loro interno la gioia e il fardello di una nazione e, al tempo stesso, oggi spesso confuse nella loro logica identitaria di due religioni: ebraica e musulmana.
Il pittogramma del pesce non è solo una lettera ma anche l’oceano primordiale della tradizione mitologica dell’Antico Egitto, che Cichero ripropone nell’archetipo delle balconate dei giardini pensili in stile babilonese.
Nûn porterebbe così dentro di sé il germe dell’immortalità, del migliore concentrato dell’identità umana, abbandonando il suo stato individuale e predatorio per svilupparsi spiritualmente in un ambiente cosmico di resurrezione, dove la nuova nascita presuppone necessariamente la morte del precedente stato, che sia di un individuo o di una comunità intera.
Morte, nascita o resurrezione sono aspetti inseparabili di una medesima essenza, poiché non sono in realtà che le due facce opposte di uno stesso cambiamento di stato.
Nûn indica il processo stesso della creazione associando la mente che crea (l’oceano) e il creato (il pesce) nel suo processo di vita e di morte. È la necessità della metamorfosi e del cambiamento. Così Nûn diviene oggetto di ripensamento della vita, del suo senso ultimo, di ciò che vorremmo salvare di noi stessi e del nostro mondo se domani iniziasse un nuovo diluvio universale. Quali pensieri, parole vorremmo portare con noi, con cui costruire il nostro nuovo mondo? Cosa salveremmo della presente umanità?
Potrebbero accompagnarci alcune opere d’arte, come fossero lo scenario per una nuova avventura? Cosa pensiamo possa avere un valore fondativo? Ma forse potremmo rinunciare a tutto per lasciare che il diluvio crei dentro di noi un grande spazio vuoto, dove nuovamente possa emergere una vibrazione, un suono, una lettera con cui ricominciare a scrivere una storia, magari più rispettosa della natura di questa incredibile madre Terra che ci ospita.
Chiara Modìca Donà dalle Rose