Il petrolio negli oceani: origine umana o naturale?
In questa ricerca la proporzione fra scarichi antropogenici e infiltrazioni naturali è stata quantificata con il 94% contro il 6%
In questa ricerca la proporzione fra scarichi antropogenici e infiltrazioni naturali è stata quantificata con il 94% contro il 6%
Un team di ricercatori cinesi e statunitensi, lavorando su analisi di dati satellitari raccolti tra il 2014 e il 2019, è arrivato a quella che per tutti era già un’ovvia conclusione: la maggior parte del petrolio trovato negli oceani è di origine umana. Malgrado sia una conclusione che può sembrare scontata, in realtà va contro un’opinione comune fra gli scienziati che in passato attribuivano l’incidenza umana solo al 56% del totale, mentre il rimanente era da attribuirsi a cause naturali.
Come sostiene lo studio pubblicato su Science, le chiazze di petrolio oceaniche possono essere attribuite a infiltrazioni naturali o a scarichi antropogenici e ancora oggi il quadro globale della loro distribuzione e dei relativi contributi naturali e umani rimane poco chiaro.
In questa ricerca, analizzando 563.705 immagini di Sentinel-1 dal 2014 al 2019, gli scienziati hanno fornito la prima mappa globale delle chiazze di petrolio e un inventario dettagliato delle fonti statiche e persistenti (infiltrazioni naturali, piattaforme e oleodotti). Circa il 90% delle chiazze di petrolio si trovava entro 160 chilometri dalle coste, con 21 aree inquinate ad alta densità che coincidevano con le rotte marittime. Al termine delle ricerche è stata quantificata la proporzione tra scarichi antropogenici e infiltrazioni naturali: 94% contro 6%.
L’utilizzo dei dati satellitari è stato fondamentale. Yongxue Liu, professore presso la School of Geographic and Oceanographic Science dell’Università di Nanchino, ha infatti ricordato come “la tecnologia satellitare offre un modo unico per monitorare meglio l’inquinamento da petrolio negli oceani, specialmente nelle acque dove la sorveglianza umana è difficile”.
Ian MacDonald, professore alla Florida State University, ha invece dichiarato che “la cosa interessante di questi risultati è la frequenza con cui abbiamo rilevato queste chiazze di petrolio galleggianti. Da piccoli rilasci, da navi, da oleodotti, da fonti naturali come infiltrazioni nei fondali oceanici e da aree in cui l’industria o le popolazioni producono deflusso che contiene petrolio galleggiante. Se potessimo seguire queste indicazioni e utilizzarle come lezione per applicare interventi in luoghi diversi e a livello globale, dove abbiamo registrato alte concentrazioni di chiazze di petrolio, potremmo migliorare la situazione”.
Forse niente di nuovo sotto il sole. Forse lo studio non fa che confermare quello che è sotto gli occhi di tutti, ciò che immaginavamo da tempo. Offre, però, secondo noi, due spunti interessanti. Il primo è che la tecnologia ci può davvero aiutare a migliorare i problemi del nostro pianeta, a trovare nuove vie e metodologie d’intervento.
Il secondo è che scienziati americani e cinesi sono riusciti a lavorare di comune accordo per il bene di tutti i popoli del mondo. Forse perché la scienza a volte riesce a lavorare per il bene del pianeta e non di singoli interessi nazionali. Ci auguriamo che rappresenti una tendenza anche nell’ambito della politica internazionale.
Fonte foto: Wikipedia
Argomenti: Daily Nautica