30 maggio 2016

Tonno in scatola: i metodi di pesca. La nostra inchiesta – 2a Parte

30 maggio 2016

Cosa sono i FAD e quale danno possono comportare all'ecosistema marino? Esistono tecniche di pesca sostenibili? Proviamo a rispondere a queste domande

Tonno in scatola: i metodi di pesca. La nostra inchiesta – 2a Parte

Cosa sono i FAD e quale danno possono comportare all'ecosistema marino? Esistono tecniche di pesca sostenibili? Proviamo a rispondere a queste domande

5 minuti di lettura

L’utilizzo di tecniche sostenibili per la pesca del tonno è uno degli aspetti di maggiore interesse e su cui è possibile fare maggiore chiarezza. Dalla fine degli anni Novanta ad oggi sono partite diverse campagne finalizzate a bloccare alcune tecniche poco green, per usare un eufemismo, in primis i FAD. Prima però facciamo un tuffo nel passato e scopriamo quali metodologie venivano usate prima.

Quando i FAD non esistevano, come si organizzavano i pescherecci?

Molto semplice, per arrivare ai tonni sfruttavano i delfini. Cerchiamo di spiegarci meglio, nell’Atlantico i delfini si muovono spesso nelle medesime zone dei banchi di tonno, per questo i pescatori si erano abituati a “sfruttare” l’avvistamento di questi mammiferi per ottimizzare la loro pesca.

Ben presto ci si rese conto che nelle loro reti finiva di tutto, l’opinione pubblica si indignò e questa tecnica venne accantonata. Il progetto Dolphin Safe dell’Earth Island Institute ha portato all’abolizione di questo tipo di pesca.

Tonno in scatola: cosa sono i FAD

Ora torniamo ai FAD, acronimo che sta per Fish Aggregation Devices, ossia sistemi di aggregazione per pesci. Quando sentiamo questo termine, dobbiamo pensare a delle immense reti con circuizione che lavorano intorno a dei sistemi di aggregazione per animali acquatici. Questi ultimi sono semplicemente degli oggetti galleggianti pensati per ricreare un effetto ombra che attira i pesci. Questi oggetti usati come sistema di aggregazione vengono lasciati alla deriva per diversi giorni e, oltre ai tonni, attirano diverse altre specie che amano nascondersi al di sotto di queste strutture.

Ne esistono di vari tipi, sia naturali, fatti con bambù o tronchi d’albero, sia artificiali, quindi vere e proprie zattere con localizzatore ed ecoscandaglio. Questa metodologia è sempre stata usata per ottimizzare la pesca, non solo quella del tonno.

Quando i FAD vengono recuperati, oltre al tonno, nella rete finiscono tartarughe marine, squali e mante. Per colpa di questa tecnica, ogni anno vengono uccise cento mila tonnellate di altre specie che spesso vengono ributtati in mare morti o incapaci di sopravvivere.

I FAD stanno arrecando danni importanti all’ ecosistema marino. Frontiers in Ecology and Environment, rivista scientifica che abitualmente tratta tematiche del genere, ha stimato che questa tipologia di pesca può uccidere tra i 480 e i 960 mila esemplari di squalo seta, una specie classificata a rischio dall’International Union for Conservation of Nature (IUCN).

Come se non bastasse, anche per gli stessi tonni si tratta di una tecnica non certo ottimale, poco selettiva per la taglia del pescato. Thai Union, uno dei più grandi produttori mondiali di tonno in scatola, ha dichiarato che continuerà a usare i FAD e alcuni dei marchi più conosciuti a livello nazionale, come ad esempio Mareblu o RioMare, vengono riforniti da questa multinazionale. Da mesi, Greenpeace ha lanciato una petizione internazionale per sensibilizzare Thai Union su questa tematica: una questione davvero delicata. Attualmente non ci sono state risposte ufficiali, seguiremo costantemente gli sviluppi di questa vicenda.

Tonno in scatola: metodi alternativi di pesca

Le multinazionali che usano i FAD stanno praticando un sistema eccessivo e distruttivo che alla lunga potrebbe avere risvolti davvero negativi per l’intero ecosistema.

Delle alternative esistono, quella più attuabile pare essere la pesca a canna, un sistema a basso impatto ambientale. Queste tipologie se sottoposte a controlli e regolamentazioni, possono assicurare un futuro ai nostri mari e alle popolazioni costiere che da esso dipendono.

La pesca a canna del tonno viene praticata con piccole imbarcazioni, solitamente di proprietà di impresari locali. Si tratta di un tipo di pesca altamente selettiva, i tonni sono pescati uno a uno e le catture accidentali sono minime.

Negli ultimi anni questa tecnica si è sviluppa moltissimo in alcune zone, come ad esempio le Maldive, grazie anche a un incremento di richieste del mercato europeo. Vengono usate piccole imbarcazioni dette dhoni, unità che misurano tra i 12 e i 20 metri di lunghezza, che possono trasportare da 8 a 12 persone. All’inizio del Novecento venivano costruite usando tronchi di albero, solitamente di palma di cocco, poi la solidità di questi dhoni è migliorata molto negli ultimi decenni. Il loro aspetto ricorda quello del Dhow, antica nave a vela della tradizione araba. Queste unità originariamente nascono come mezzi di trasporto per le popolazioni costiere, poi sono diventate per necessità navi da pesca, prima a vela e successivamente a motore.

Per favorire questa tecnica di pesca sostenibile, solitamente praticata a dieci o venti miglia dalla costa, e per garantire un futuro alle risorse dei propri mari, lo Stato delle Maldive ha vietato in maniera rigorosa la pesca al tonno praticata da pescherecci che adottano tecniche simili ai FAD. Il caso delle Maldive non è certo un esempio isolato, il cento per cento del mercato inglese e australiano si è impegnato ad usare tecniche di pesca sostenibili, come la pesca a canna o comunque con reti di circuizione senza FAD.

Anche in Italia si stanno, lentamente, muovendo i primi passi in questa direzione. AsdoMar si sta impegnando da anni e i risultati cominciano a vedersi, mentre altri marchi molto noti, come ad esempio RioMare, stanno cominciando ora a prendere in considerazione un’ipotesi di questo tipo. RioMare ha garantito che entro la fine dell’anno il 45% del tonno pescato verrà ottenuto da tecniche green. Verità o false promesse?

Per proseguire con la terza parte della nostra inchiesta clicca qui, per rileggere la prima qui

Paolo Bellosta

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