SPECIALE PESCA – Tutto quello che avreste voluto sapere sul palamito
La pesca con il palamito, più che una tecnica di pesca, è un antico atto di fede e di amore. E il pescatore è parte integrante del rito: ognuno ha i suoi trucchi e le sue credenze
La pesca con il palamito, più che una tecnica di pesca, è un antico atto di fede e di amore. E il pescatore è parte integrante del rito: ognuno ha i suoi trucchi e le sue credenze
Il turista che, digiuno delle cose di mare, si inoltri nelle viuzze che in Liguria confluiscono nel porto o porticciolo che esso sia, avrà sicuramente notato grossi cesti di plastica o vimini sul cui margine è appesa una sfilza di ami. Quello è il palamito o palangrese, uno dei metodi di pesca più antichi da quando ami e rete si contendono la primogenitura come attrezzo di pesca nelle mani dei nostri antenati. Consiste essenzialmente in una lenza detta “madre” o “trave” lunga anche migliaia di metri composta di solito da nylon o cordino intrecciato. In realtà la scelta del materiale è più un atto di fede e non è assolutamente intercambiabile, nel senso che chi crede nell’intrecciato mai e poi mai userà il nylon e viceversa.
Il cordino tradizionale si imbroglia meno ed è più maneggiabile, il nylon è capriccioso si mette come vuole lui ma è meno visibile al pesce e meno attaccabile dall’acqua salata. A detta “madre” sono collegati a intervalli spezzoni di nylon di 1-2 metri con un amo di diverse misure a seconda dell’impiego, solitamente ogni “coffa”, nome in codice della cesta, contiene cento ami amorosamente appuntati sul bordo di sughero.
Pesca antica il palamito, antica e faticosa diffusa in tutti i sette mari: giganteschi palamiti “galleggianti” usati dai giapponesi e dai pescatori di spada della costa est americana per pesci col rostro, tonni e squali (vedi il film “la tempesta perfetta”), palamiti “mignon” con ami piccoli per il gozzetto che insidia sotto costa saraghi e orate, palamiti ”pesanti” per gli amanti delle grandi profondità, per i merluzzi dei pescatori bretoni che rischiavano la pelle “au grand large” sui banchi di Terranova (leggere “capitani coraggiosi”) e ancora le più diverse varianti: semi galleggianti, sospesi, spesso frutto della fantasia e delle ferree convinzioni del pescatore.
Chi va coi palamiti snobba in quanto razza superiore tutte le altre tecniche di pesca, in specie i nobili che escono a traina con barche costose che ostentano a poppa canne e mulinelli scintillanti cui sono appesi pesci artificiali così che si può tornare in porto ancora odorosi di acqua di colonia. Il palamitaro no, lui si immerge nel pesce dalla mattina quando inizia innescare con sarde o acciughe la sfilza di ami e quando ha finito l’odore della sarda copre ogni cosa, si mescola col la focaccia e il vino bianco, quasi obbligatorio viatico per uan buona pescata, impregna la barca i vestiti le mani per giorni. Poi si cala il palamito con attenzione, un amo può agganciarsi a una mano o cadendo non visto nella madre può ridurre una lenza di 2 chilometri di lunghezza in un enorme, inestricabile gomitolo irto di ami.
Quando si cala nelle alte profondità ( 200-600 metri di fondo) la corrente la fa da padrona, spesso porta l’attrezzo lontano da dove doveva andare, afferra i braccioli e li fa ruotare su se stessi o intorno alla madre tutto per la gioia del recupero. Quanto deve stare in acqua? Anche qui non troverete mai due pescatori che la pensino alla stessa maniera: l’impaziente che vuole recuperare dopo un’ora rischia di veder tornare le sarde come erano state calate con i rimproveri dei compagni di pesca dissidenti, l’avido che recupera dopo tre-quattro ore rischia di perdere i pesci lama e i gronchi che hanno avuto tutto il tempo di rosicarsi il bracciolo e andarsene a digerire l’amo.
Una ultima, importante raccomandazione: le due cime di riferimento tiratele su come volete ma il palamito va recuperato a mano: le dita che maneggiano la “trave” la interrogano per sentire i messaggi che come un cavo telefonico trasmette dalle profondità: le testate del pesce castagna, gli strattonamenti del grosso gronco a volte “si crede”di aver sentito magari era la corrente o una “afferratura” sul fondo, delizioso il segno dell’”aggallamento” quando cioè un grosso pesce sconfitto dal baro-trauma sale invece di scendere e trascina verso l’alto tutto il palamito; chi recupera sente come per incanto la madre che si fa leggera e si mette in orizzontale, gli occhi dell’equipaggio cercano subito in superficie il bagliore del nasello, della rara cernia il pancione del gronco extra-large che la vescica natatoria rigonfia ha portato in superficie.
Un pescatore tira e gli altri hanno lo sguardo fisso verso la profondità a spiare per primi il bagliore elettrico del pesce lama, le bolle d’aria del nasello, il bruno dell’odiato gattuccio e così via. Capite ora perché per un pescatore di palamiti gli altri metodi di pesca fanno la figura della minestrina rispetta a una sontuosa bistecca?
Valentino Arcuri
(fonte immagine pescamare.net)
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Argomenti: Daily Nautica, Pesca
Quando sbocciò l’amore per questa pratica di pesca mi trovavo a terra, era già terminato l’approdo di un peschereccio locale e scaricato il pescato di Zeri che mi stavo dirigendo nella direzione opposta, di traverso, come il risentimento che mi stava accompagnando ancora per il rancore di aver lasciato al molo il desiderio, il mio, che altro non era che la voglia di comprare qualche pesce… Ed ecco che, direttamente da Nord una voce chiara e distinta ancora riecheggia attorno ai padiglioni delle mie aree di memoria e del senso interno che vi risiede; proprio dallo stesso spazio in cui le sensazioni vengono provate anche la memoria sembra attingere e seguire le tracce che ci conducono ai luoghi del cuore e ai tempi dei pensieri. -‘Pratico la pesca con il palamito’- è stata questa la cavatina con cui ha preso congedo quella parte di me che nel valutare la qualità delle relazioni, dei rapporti ma anche delle scelte e dei giudizi, non vuole sporcarsi le mani ma costi quel che costi, col tempo che ci vuole, non può e non vuole rinunciare all’autenticità, quelle parole scandirono il mio giro di boa verso la fuga dalla superficialità e a loro modo sono state anche ‘un nuovo inizio’, per quello che questa espressione possa voler dire ma da quel momento non ero più un profano della pesca in mare ed era nata anche un’amicizia, che non aveva ancora un volto ma ero sicuro che quelle parole venissero da qualcuno del capannello già sciolto e del quale fino a poco prima facevo parte.
-‘Mi chiamo Silverio, vuoi venire con me domattina?’-
è un bel divertimento salpare il palamito con delle gallinette di 1k e qualche bell’occhione, speriamo la prossima volta di fare meglio
Bello, ma lasciami affermare che tirare su una bella ricciola di 7 kg o un dentice di 4 o un serradi 2 che ti sguizza fuori acqua mentre lo recuperi è…. leggenda. Amico mio, tutte le tecniche sono belle e da vivere, nessuna sovrasta l’altra. 🙂