Insultario marinaresco: come ci si ingiuria tra gente di mare
Vocaboli e turpiloqui da usare quando si va in barca
Insultario marinaresco: come ci si ingiuria tra gente di mare
Vocaboli e turpiloqui da usare quando si va in barca
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Accedi RegistratiSenza turpiloquio, non ci sarebbe la civiltà. L’antropologia ci insegna infatti che l’invenzione dell’insulto, nella storia dell’umanità, ha costituito un notevole passo avanti rispetto al prendersi subito a randellate in testa. Non solo. Le famose “parolacce” che mamma non voleva che uscissero dalle nostre labbra di bambini, esprimono - da un punto di vista culturale e antropologico - una vasta ricchezza linguistica capace non soltanto di offendere l’avversario ma anche di esprimere scherzosità e rafforzare legami all'interno di micro comunità. Come quella dei marinai, che sin da quando il primo essere umano è salito su una zattera, ha sempre dimostrato un fortissimo senso di appartenenza.
Proprio dal mare viene la parolaccia più adoperata in Italia. La numero uno nell’hit parade degli insulti. Avete indovinato? Ma sì! Quella di cui Italo Calvino, nel suo libro "Una pietra sopra: discorsi di letteratura e società”, Einaudi 1980, sottolineava “l’espressività impareggiabile” e definiva un vero “jolly linguistico” in quanto nelle sue varianti poteva esprimere concetti anche in contrasto tra di loro: bravura (“quel tipo è cazzuto”) ma anche stupidità (“sei un cazzone”, “hai fatto una cazzata”), arrabbiatura (“è proprio incazzato nero”) ma anche noia (“oggi sono davvero scazzato”). Secondo una probabile etimologia, il termine deriva dal greco akation che indicava l’albero maestro della nave. E non serve scomodare Sigmund Freud per leggerci una allegoria del membro maschile. Questa etimologia spiegherebbe la relazione con altri termini marinareschi come “cazzare” la vela.
Nel corso dei secoli, i marinai si sono sempre rivelati una ricca fonte di turpiloquio che viaggiava proprio come le merci che trasportavano nei velieri, contagiando i porti di tutto il mondo. Un esempio è la lingua franca Sabir, utilizzata nel Mediterraneo fino al XIX secolo, e che mescolava vocaboli spagnoli, arabi e francesi ai vari dialetti italiani, genovese e napoletano in primis. Il Sabir si utilizzava per comunicare in diversi contesti multiculturali - e cosa c’è di più multiculturale del mare? - anche in modo burlesco e provocatorio. Questa lingua era ricchissima di insulti rituali che i marinai si rivolgevano tra di loro o, in particolare, alla gente di terra.
Su tutti, i commercianti con i quali avevano a che fare quando sbarcavano le merci e che venivano chiamati can bazar, ovvero “cani da mercato”. Mangia scoglio era rivolto invece a chi viveva sulla costa e, inspiegabilmente dal punto di vista di un marinaio, non andava per mare. Corsaro maladetto era detto di una persona di cui era meglio non fidarsi. Pacotilles era la merce che il marinaio portava a bordo in piccole quantità per scambiarla per conto proprio e indicava gente o equipaggi di poco valore. Tra di loro, i marinai si insultavano dandosi del tavernaro, ubriacone, mozzo di terza mano, il rango più basso nelle navi, barcarolo da riva, l’attuale marinaio d’acqua dolce. Un marinaio particolarmente scarso veniva apostrofato anche donnet, femminuccia.
La scomparsa del Sabir ha lasciato spazio ai dialetti il cui turpiloquio, nelle città di mare, pesca abbondantemente da termini o da situazioni marinaresche. E qui non posso fare altro che lasciare spazio alla mia città, Venezia, e alle tante ingiurie che il mare ha regalato alla città dei Dogi. Ecco un breve elenco:
Batipai. Persona dura di comprendonio la cui testa è talmente dura da essere utile solo per piantare le "bricole", i pali, in canale.
Cocal. Ovvero gabbiano. Noto uccellaccio mezzo matto di laguna, localmente utilizzato per indicare persone ingorde (“El magna come un cocal”), chiassose e stonate (“El siga, el canta come un cocal”) o pazzoidi (“El xe mato come un cocal”)
Sepe. Seppie. Questi molluschi cefalopodi sono i primi a nutrirsi del cadaveri degli annegati attaccando soprattutto le parti molli come la testa. “Aver ‘na testa che no te ea magna gnanca e sepe”, vuol dire essere così stupidi che neppure le seppie vorrebbero nutrirsi del tuo cervello.
Incandìa. Deriva da Candia (antico nome di Creta). Detto di persona male in arnese come, all’epoca dell’assedio da parte della flotta turca, erano ridotti gli abitanti dell’isola.
Cao de merda. All’epoca dei grandi velieri, i marinai facevano la pupù sporgendo il sedere dalla murata di poppa. Per pulirsi, usavano la parte finale di una apposita cima che veniva fatta penzolare in mare. Dare a qualcuno del “cao de merda” equivale a paragonarlo alla carta igienica e allo scopino del water assieme.
Marrano. I marrani erano gli ebrei convertiti, per forza o per convenienza, al cristianesimo. Il termine deriva dallo spagnolo “marrano”, ovvero “maiale”, in quanto per dimostrare la loro conversione erano costretti a mangiare carne di porco. Perseguitati sanguinosamente dalla corona spagnola, si rifugiarono anche a Venezia e dettero il nome alle navi che li trasportavano. Il marrano infatti è anche il nome di un tipico bastimento Veneziano del XIV-XV secolo. Marrano si dice di una persona infingarda e traditrice.
Remo da galera. O anche remo da banco. Ai banchi dei remi che spingevano le galee ci finivano i condannati ai lavori forzati. Il termine quindi significa “scarto di galera”.
Branzinari. Questa è una new entry che ho scoperto da poco. E’ così che i pescatori chioggiotti apostrofano i colleghi veneziani, colpevoli, a loro giudizio, di essere così scarsi nell’arte della pesca che al massimo possono tirare in barca un branzino. Pesce che, sempre secondo loro, sarebbe facilissimo da catturare. Non sanno, gli ingenui, che quando un pescatore veneziano riesce, per sua buona sorte, a pigliare un branzino, fa festa per una settimana!
Il mio elenco non pretende certo di essere completo. Se conoscete qualche insulto di origine marinaresca in uso nella vostra città, fatemelo sapere!
Argomenti: Venezia