L’isola delle monache lussuriose
La scandalosa vicenda delle irriducibili suore di un convento della laguna veneta che dovette essere preso d’assalto dai Fanti da Mar
L’isola delle monache lussuriose
La scandalosa vicenda delle irriducibili suore di un convento della laguna veneta che dovette essere preso d’assalto dai Fanti da Mar
Nell’anno del signore 1474 una strana processione di donne, per lo più spose dei pescatori di Pellestrina e Malamocco, si recò a Venezia e chiese udienza al vescovo, nonché futuro patriarca della città lagunare, Lorenzo Giustiniani, e al neo eletto Doge Francesco Mocenigo. Il motivo della spedizione muliebre ricorda tanto quello delle mogli del paesino di Sant’Ilario della canzone “Bocca di Rosa” dell’indimenticabile Fabrizio De André: “Il furto d’amore sarà punito, disse, dall’ordine costituito”.
Le donne delle isole della laguna veneta, infatti, erano venute a denunciare lo scandaloso comportamento delle suore del convento dell’isola di Sant’Angelo in Contorta, accusate di adescare i loro mariti esponendo le loro grazie dalle finestre del convento che si affacciavano sulla laguna. Così che i pescatori, oltre che a rincasare tardi la sera, e qualche volta a non rincasare affatto, sbarcavano con le sentine quasi vuote di pescato perché la maggior parte del pesce, soprattutto quello più pregiato, veniva regalato alle suddette monache in cambio dei loro favori.
Adesso, non vi so proprio dire come funzionasse nelle altre città, ma in quegli anni nella Serenissima Repubblica l’esposizione delle grazie muliebri dalle finestre della città non faceva nemmeno notizia. Come testimoniano i tanti toponimi che ricordano quei tempi goderecci. Uno per tutti il “Ponte delle Tette”, nel sestiere di Castello.
Vero è che dette esposizioni erano da relazionarsi ad altri toponimi esplicativi come “Calle del Casin”, “Sotoportego di Sora Betta” (che non vi sto a raccontare che mestiere esercitasse) o “Fondamenta delle donna onesta” (nelle tariffe). Il problema è che queste di Sant’Angelo erano suore dell’ordine delle Benedettine e non cortigiane regolarmente iscritte nel registro della professione per il quale versavano un regolare tributo nelle casse dogali.
Ma la questione aveva anche altri e non trascurabili aspetti. Quelle monache erano tutte figlie di ricche e potenti famiglie patrizie costrette a forza a consacrare la vita a dio, e poi spedite in una lontana isoletta della laguna sud, grande neppure come un nostro campo di calcio, a condurre vita casta e pia per una mera questione di eredità, di gestione del patrimonio e del nome della famiglia. Capirete come mai a queste donne, abituate alle feste patrizie, alle villeggiature sul Brenta ed alle libertà di un carnevale che a quei tempi cominciava a Natale e durava sino alle Ceneri, di condurre vita casta e pia non gliene potesse importar di meno.
Di fronte alla protesta delle mogli dei pescatori che gli chiedevano di chiudere il convento del peccato, il Doge face quello che gli riusciva meglio, e cioè orecchie da mercante, pensando che più distante stavano da Venezia quelle femmine scatenate, meglio era per tutta la città. Che di “ciacole” e di problemi di quel genere ce n’erano già abbastanza a Venezia con le loro consorelle di San Zaccaria, proprio a due passi da palazzo Ducale. Oltre a tutto, se proprio doveva scegliere tra le mogli dei poveri pescatori di Pellestrina e le nipoti, magari un tantino birichine, dei patrizi veneziani, il Mocenigo non aveva dubbi per chi parteggiare.
Assai più intransigente si dimostrò, però, il vescovo Giustiniani, che spedì una delegazione di prelati e di monache, quest’ultime di provata morigeratezza, nell’isolotto di Sant’Angelo in Contorta per redimere le peccatrici. Ahimè, la spedizione non ottenne il benché minimo successo. Preti e suore furono picchiati e presi a sassate della monache di San’Angelo, e dovettero far ritorno a Venezia con le proverbiali pive nel sacco e le teste fasciate.
Ma ormai la faccenda non poteva più chiudersi qua. Anche perché le monache del convento avevano collezionato oltre una cinquantina di condanne per comportamenti libidinosi e oltraggi vari al pudore e le loro avventure erano lo spettegolio preferito di tutta la città. Il vescovo chiese l’intervento del pontefice Sisto IV che, con bolla papale, sciolse definitivamente l’ordine femminile di San Benedetto, ed il Legato Pontificio fece pressione sul governo della Serenissima per sgomberare il convento del peccato. A questo punto, il Doge non aveva più scusanti e dovette spedire a Sant’Angelo un battaglione di Fanti da Mar.
Va detto che le consorelle si difesero con le unghie e con i denti. I Fanti da Mar erano il corpo d’elite della Veneta Marina. Dei veri e propri “remi da galera” abituati ad abbordare le navi dei pirati dalmati e ad azzuffarsi con i giannizzeri ottomani. Eppure le consorelle riuscirono a respingere i primi assalti e – mentre tutta Venezia sghignazzava alle loro spalle – i Fanti dovettero cingere d’assedio navale per giorni l’isola.
Quando riuscirono finalmente a sbarcare e ad avere ragione delle monache ribelli, queste furono impacchettate e riportate in città. Il Doge si rifiutò di consegnarle al Legato Pontificio e preferì sparpagliarle nei vari conventi di Venezia dove, assicurano le cronache dell’epoca, le monache continuarono a fare esattamente quello che avevano fatto nel convento dell’isola di Sant’Angelo.
In seguito l’isola fu convertita in deposito militare e divenne un deposito di munizioni che gli valse il nome che porta tutt’ora: Sant’Angelo delle Polveri. La devastatrice ira divina che le mogli dei pescatori avevano invocato sul convento del peccato arrivò un pochino in ritardo. Il 29 agosto 1689, un fulmine fece esplodere il deposito e l’intero complesso saltò per aria. I resti di quello che era il convento delle suore di San Benedetto sono ancora visibili a chi naviga nella laguna meridionale di Venezia e sono un triste specchio delle trasformazioni industriali che hanno insensatamente devastato quella che era la laguna più bella del mondo.
Oggi, alle spalle dell’isola di Sant’Angelo, le Casse di Colmata hanno riempito ed ucciso le antiche barene, causando, tra le altre cose, anche il fenomeno tutto recente dell’acqua alta, il Terminal di Fusina ha allungato la terraferma sino a ferire il cuore della laguna, il Canale dei Petroli ha portato Marghera (dove una volta il “mare c’era” come dice il nome stesso) in terraferma, circondata da aree inquinate e in perenne attesa di una bonifica che non arriva mai.
L’oramai ex laguna che giocava sull’equilibrio precario tra terra e acqua, è stata violentata dal mare aperto. E proprio il canale di Contorta, dove sorgeva il monastero del peccato, ultimo baluardo dell’antica toponomastica della Serenissima, è sotto la minaccia di venir allargato e scavato per farci passare le grandi navi da crociera che qualche scriteriato vorrebbe portare a Fusina, previa la realizzazione dell’ennesima enorme banchina di acciaio e cemento dai costi miliardari. Se le suore di Sant’Angelo vedessero oggi la loro isola e la loro laguna si domanderebbero se davvero sono loro le peccatrici.
Foto di Renzo Scarpa