La memoria di Cipro tra musei a cielo e mare aperto: dal Museum of Underwater Sculpture all’orizzonte della linea verde

Il MUSAN (Museum of Underwater Sculpture) è stato progettato e realizzato dallo scultore inglese Jason de Caires Taylor

La memoria di Cipro tra musei a cielo e mare aperto: dal Museum of Underwater Sculpture all’orizzonte della linea verde

La memoria di Cipro tra musei a cielo e mare aperto: dal Museum of Underwater Sculpture all’orizzonte della linea verde

Il MUSAN (Museum of Underwater Sculpture) è stato progettato e realizzato dallo scultore inglese Jason de Caires Taylor

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Quando ero in navigazione, non fidandomi mai abbastanza del potere dei radar, mi è capitato spesso, guardando le carte nautiche del Mar Mediterraneo, di associare l’isola di Cipro con la sagoma di un grandissimo cigno in procinto di spiccare il volo: il becco punta alla Siria, le lunghe ali sfiorano a nord la costa turca e a sud il Libano, la Cisgiordania e Israele/Palestina, mentre le palmate zampe prendono la rincorsa dalle isole greche.

Il sole d’agosto e la fantasia possono fare brutti scherzi ma in questo strano miraggio si cela il desiderio, comune a molti, di vedere quest’isola, così solare e bella, libera da una divisione tanto assurda quanto decisamente anacronistica. Noi turisti siamo soliti attraversarla o costeggiarla con disinvoltura, oltrepassando, a volte senza pudore, la barriera verde di filo spinato e di cemento che, sin dal 1974, la taglia in due parti, attraversandola da nord a sud e sfigurandone il volto: la cosiddetta “buffer zone“, una striscia intermedia sotto il controllo dell’ONU.

L’approdo dal mare, invece, prescinde da tutto ciò e la bellezza della sabbia, delle rocce cesellate dal vento e delle misteriose insenature finisce per celare ogni cosa. L’isola di Cipro, infatti, è un vero e proprio museo a cielo aperto, dove si possono visitare insediamenti preistorici, templi greci di epoca classica, teatri e ville romane, basiliche paleocristiane, chiese bizantine e monasteri, castelli dell’epoca delle crociate, imponenti fortificazioni veneziane, moschee musulmane ed edifici in stile coloniale britannico.

Le sue spiagge, i siti archeologici e i suoi scenari naturali, in lungo ed in largo, attirano ogni anno migliaia di visitatori alla ricerca della spuma di mare da cui sarebbe nata la dea Afrodite, dea della leggerezza, dell’amore, della fecondità e delle candide onde cipriote. Il suo culto viene da molto lontano, si narra addirittura dall’Estremo Oriente. Venerata dai babilonesi, dai fenici, perfino dalla popolazione ebraica come Astarte, regina del cielo, Afrodite è sempre stata una divinità complessa ed affascinante e, nella tradizione classica, Cipro è stata eletta come sua culla, mentre gli artisti di tutti i secoli l’hanno eletta a loro musa.

Afrodite, nel racconto mitologico come nell’iconografia dell’arte, suggella anche un ancestrale rapporto tra l’uomo ed il mare, tra i suoi frutti e la terra. E anche per questo per millenni è stata oggetto di sublimazione e di ispirazione per gli artisti più celebri. I suoi seguaci o, come diremmo oggi, i suoi followers, non si contano, intellettuali e non. E anche in questo nuovo millennio Afrodite incarna un modello di perfezione.

I più romantici, dall’alba al tramonto, si lasciano lambire dalle calde acque di un faraglione marino a Paphos, battezzato “lo scoglio di Afrodite“, al largo della costa, lungo la strada principale in direzione di Limassol, sotto Petra tou Romiou. Ma per i più temerari, che amano immergersi tra le meraviglie dei fondali marini in apnea o con le bombole, è veramente interessante visitare un incredibile quanto suggestivo museo sommerso, il MUSAN – Museum of Underwater Sculpture, progettato e realizzato dallo scultore inglese Jason de Caires Taylor.

Ad Ayia Napa, a poco più di duecento metri dalla spiaggia, al largo di una cittadina balneare particolarmente turistica, Taylor ha installato 93 sculture raffiguranti figure umane, soprattutto bambini, tra sagome di alberi e piante giganti, simulando una foresta subacquea attaccata ad una zolla di terra, cristallizzata e poggiata nei fondali marini. Le sue installazioni sono civiltà sommerse, apparentemente leggendarie, apparentemente morte, che racchiudono, in realtà, un mistero: la vita. Qui l’artista mira a comunicare allo spettatore con boccaglio e pinne la funzione rigenerativa dell’arte, sdoppiandola in metaforica e funzionale, ossia generando emozioni e riflessioni da un lato e nuovo habitat dall’altro, come una sorta di asilo nido, casa colonica di futuri abitanti marini.

Le opere di Taylor sono votate a crescere di anno in anno. Ospitano una grande varietà di flora e fauna marina, “pescando” così lo stupore non solo tra gli appassionati di arte contemporanea ma anche tra i biologi marini. L’area marina protetta di Ayia Napa diventa un teatro in cui viene inscenata un’improbabile passeggiata di esseri umani che determina, nella sua fissità, il ripopolamento di specie viventi. Questa visione ribalta e rimette in discussione l’azione parassitaria ed antropocentrica dell’uomo nello sfruttamento del mare, che, nell’epoca moderna, ne ha alterato gli equilibri e la sua normale evoluzione.

Le sagome dei giovani rappresentano il futuro e la cura che si prenderanno dell’ecosistema, sentendosi parte di esso, nel silenzio del mare. Difatti, i bambini che esplorano il bosco marino giocando a mosca cieca tra un albero e l’altro, emulando i più celebri fotoreporter, sono una figura chiave della complessa installazione. Questa metafora, sapientemente scelta dall’artista, è quella della ricerca di un approccio autentico, curioso e rispettoso dell’uomo verso la natura di cui è parte. Un approccio vergine, esattamente come quello di un bambino che esplora e rispetta la natura. Si limita ad ammirarla, a fotografarla, rapito dai segreti della sua magia, senza inquinarla o piegarla alle sue esigenze consumistiche e devastatrici.

Taylor denuncia l’importanza di rianimare la salute dei nostri mari e sottolinea l’importanza di ristabilire una connessione diretta tra l’uomo ed il mondo naturale, ritornando così alla forza rigeneratrice di Afrodite, dando vita, con le sue opere, a delle barriere coralline artificiali, generando forme fruibili ed in grado di creare nuovi habitat per specie a rischio, come coralli e spugne. Taylor, classe 1974, fa parte di un movimento eco-artistico ispirato ai principi del vecchio movimento americano degli anni Settanta della Land art e del movimento dell’arte ecosostenibile, che denunciava le conseguenze dell’azione diretta dell’uomo sulla natura proponendo un sistema di riqualificazione partendo proprio dall’arte, che, interagendo con l’ambiente circostante, è lasciata libera di evolversi ed integrarsi con lo spazio.

Taylor, oltre che scultore, è anche un ottimo fotografo e, come un demiurgo, dopo aver realizzato nei fondali marini le sue opere, ne immortala le evoluzioni e gli intrecci con il pennello, dal sapore di infinito, della natura, che rivela scenari sempre più incredibili ed imprevedibili. L’uomo modifica e arreda l’ambiente che lo circonda ma la mutazione della materia e dello spazio ha una durata effimera e transitoria, perché, con il passare del tempo, la natura si riappropria di tutti i suoi spazi, compresi tutti quei luoghi artificiali creati dall’uomo.

L’installazione artistica di Taylor è capace di creare un forte dialogo visuale tra arte e natura, da cui emerge il tentativo di ricontestualizzare il rapporto tra l’Uomo e la Terra. Alla fine di questa immersione, di questo viaggio un po’ insolito, il visitatore riemerge con una marcata nuova consapevolezza della sua essenza rispetto alla natura, scoprendo di esserne parte e non osservatore o mero gestore esterno. Taylor è stato tra i primi scultori a collocare le proprie installazioni sotto la superficie dell’acqua. Ha esordito in altre parti del mondo, come in Australia, nelle Maldive, in Francia e nel 2009, con “The Silent Evolution”, nella città di Cancún, dove ha generato il più grande museo subacqueo esistente: il M.U.S.A, Museo Subacuático de Arte.

Proseguendo il nostro viaggio, non lontano da Capo Greko e costeggiando Kryou Nereu Avenue, prima di lasciare il centro di Ayia Napa, sulla destra, lungo tutta la collina da monte a valle, si articola “Sculpture Park“, un labirinto di sculture gigantesche che concorrono, per bellezza e sontuosità, con la vegetazione che lo circonda, un groviglio di macchia mediterranea e piante grasse tra le più ricercate. Una vasta area ricoperta di sculture erette su importanti capitelli bianchi, inaugurata solo dieci anni fa, nel 2014, con 50 importanti opere in marmo a cui si vanno ad aggiungere di anno in anno nuove opere in corso di lavorazione, un atelier en plein air lungo la strada.

Sfilano così artisti noti provenienti da tutto il mondo, che si sono misurati con la storia di Cipro, scegliendo tra i tanti spunti quali dovevano essere oggetto della loro ricerca artistica, per poi entrare a far parte di una grande galleria vivente. Gli artisti, dopo aver scelto il loro pezzo di marmo, sono chiamati a lavorare nel medesimo luogo in cui viene successivamente esposta l’opera. La genesi dell’opera ed il suo legame spazio-temporale sono parte dell’opera stessa. Oltre ventimila metri quadrati a gradoni verso il mare permettono al visitatore di viaggiare nella storia di Cipro e carpirne, nel silenzio della narrazione scultorea, la sua vita, oltre che le stratificazioni che si porta in grembo.

Questo luogo sarà messo in stretta connessione con il cuore della città di Roma, nel Parco Archeologico del Colosseo, il 26 settembre 2024, quando il Ministero dei Beni Culturali italiano con le autorità cipriote inaugureranno una mostra dal titolo “Cyprea, la rete di Afrodite“, con gli artisti Eleni Kyndini, Lefteris Tapas, Panikos Tembriotis, Vassilis Vassiliades e gli italiani Gabriels, Stefania Pennacchio, Rosa Mundi e Nicola Verlato, valorizzando le matrici principali di Afrodite, per gli antichi romani tramutatasi in Venere. Questa mostra verrà poi portata a Cipro, nei luoghi iconici della dea, in tutte le sue coste, arricchita di nuove opere e un numero sempre crescente di artisti.

Ma la comunità artistica internazionale, tra i tanti eventi in programma, non poteva prescindere, nell’anno 2024, dalla memoria di mezzo secolo di un evento tanto tragico quanto ancora fisicamente in essere, ossia la divisione dell’isola. La maggior parte delle attività culturali portate avanti nella parte dell’isola cipriota sono state caratterizzate dal silenzioso sapore del pudore e del rispetto della storia, in netta contrapposizione con le vere e proprie celebrazioni di conquista nella parte di occupazione militare turca. Il 15 luglio 2024 è stato ricordato quando una cinta di colore verde bloccò, metaforicamente, la “vita” del magico cigno nella parte cipriota della nazione, con un lungo eco “immobile e silenzioso” del suono di una sirena nel cuore di Nicosia, mentre le fanfare turche, dall’altra parte, inneggiavano e celebravano l’occupazione.

A Cipro, nel suo territorio, esistono materialmente due Stati, uno abitato dai ciprioti cristiani di origine greca, nella parte sud-occidentale, e uno abitato dai turchi, in quella nord-orientale, riconosciuto solo dalla Turchia e non dalla comunità internazionale. La Repubblica di Cipro, pur essendo una tra le tante stelline “Stato” dell’Europa unita, nel suo grembo conserva una gestazione obsoleta, fuori tempo massimo, abitata da due popoli gemelli così vicini un tempo e, come se il medesimo tempo si fosse fermato, oggi ancora così lontani.

Come tutte le isole più belle del Mediterraneo, Cipro è una perla che ha avuto molti pretendenti, tra cui ha spiccato soprattutto l’Impero Ottomano, che, mescolandosi con la maggioranza di etnia greca, ha provocato aspre tensioni tra le due popolazioni. Ma con il tempo sembrava che le due comunità cipriote potessero vivere, come in tanti altri Stati, una vita civile e serena. Già in passato i veneziani e la Regina Cornaro avevano diffuso il profumo della legge del libero mercato e la leggerezza e opportunità degli scambi commerciali, seppur cinti in solide mura di pietra, ancora oggi perfettamente funzionanti e fiere sulle sponde di Famagosta, di Larnaca, come nel centro di Nicosia.

Il dominio turco terminò nel 1878 e Cipro divenne una colonia del Regno Unito. Dopo la Seconda Guerra Mondiale iniziò la lotta per l’indipendenza, promossa soprattutto dalla componente greca, che aspirava all’enosis, cioè all’unione di Cipro con la vicina Grecia. Finalmente, nel 1960, con il nome di Repubblica di Cipro e con una Costituzione che consentiva a entrambe le etnie di essere rappresentate nel governo, l’isola credette di poter spiccare il volo e, da brutto anatroccolo, diventare nuovamente un cigno, o meglio una nazione autonoma ed indipendente.

Il Regno Unito, la Grecia e la Turchia dovevano essere i garanti e i paladini di questa metamorfosi ovidiana e del nuovo status quo, con il diritto di intervenire militarmente solo nel caso in cui l’equilibrio fosse stato messo in discussione. A quei tempi i ciprioti di origine greca rappresentavano l’82 per cento degli abitanti, mentre il resto era composto dalla popolazione di origine e lingua turca. Purtroppo le due comunità entrarono in conflitto nel 1963 e, dopo alcuni anni di sanguinosi scontri, nel 1974 si giunse ad una fatidica resa dei conti. La Grecia, governata dalla dittatura dei colonnelli, organizzò un colpo di stato con la prospettiva di ottenere l’enosis e così la Turchia, prendendo ghiottamente la palla al balzo, passò da guardiano a guardia, occupando gran parte della città di Nicosia e tutta la parte nord-orientale dell’isola.

Fu una vera e propria guerra civile, in cui un popolo, che sino a qualche giorno prima conviveva serenamente, iniziò a colpirsi mortalmente, occupando reciprocamente le abitazioni dell’uno e dell’altro, all’inizio sulla linea di confine e poi su tutta l’isola. I due litiganti, Turchia e Grecia, la ebbero vinta ma non Cipro, che venne tagliata come un’arancia, il cui succo dolce ed amaro è diventato la consonante principale di coloro che, vecchi o meno vecchi, sopravvissuti alla guerra civile, si raccontano.

Per molti, soprattutto per la diplomazia internazionale abituata ai compromessi, sarebbe ora di andare oltre, cercando di dimenticare le sofferenze del passato e guardare ad una soluzione concreta, rispettosa della dignità delle vite degli uomini che a Cipro sono nati e cresciuti. E chi meglio degli artisti per tentare di ricucire lo strappo di una guerra civile, per scrivere l’introduzione di un nuovo capitolo, quello della pace, non dimenticando il passato.

Tra le tante iniziative, tutte degne di nota, capaci di ravvivare un sottile file rouge tra il passato ed il presente, tra l’antica Grecia e la Vecchia Europa con il mondo moderno, vi invito a visitare una mostra che ho personalmente curato a Nicosia e che è destinata a viaggiare nelle varie sedi istituzionali e diplomatiche di Cipro. L’installazione artistica, site-specific, denominata “Cyprus Memory“, è a pochi passi dalla green line delle Nazioni Unite ed è a cura dell’italiana Laura Mega e del cipriota Vassilis Vassiliades, uno degli otto artisti che esporranno nel Parco Archeologico del Colosseo a Roma, nella mostra dedicata alla rete di Afrodite.

La loro suggestiva opera nasce dal celebre slogan “Io non dimentico“, ideato da un grafico greco e posto sulla collina di Cipro dopo l’invasione turca del 1974. Queste parole sono divenute con il tempo il simbolo della lotta per la liberazione di Cipro, contro la violenza e il sopruso dell’occupazione di uno Stato su un altro Stato sovrano, argomento di schiacciante attualità ancora oggi, a prescindere dalle posizioni. Il luogo non è assolutamente casuale ma parte integrante dell’opera performativa. Lo studio Pentadaktylou 16 è uno spazio condiviso da cinque artisti, Pentadaktylos, come le cinque dita e la catena montuosa situata nella parte settentrionale di Cipro, attualmente occupata dalle truppe turche.

Laura Mega, occhio straniero in terra doppiamente straniera, ha individuato nei sacchi di juta impilati nelle trincee che dividono l’isola l’emblema della divisione ed il peso della memoria. E, con una cura quasi ospedaliera, ha utilizzato 20 sacchi, riempiendoli di sabbia, indistintamente della parte nord e della parte sud, uniti sullo stesso fronte rievocativo della Green Line. Ogni sacco, ricamato a mano in filo di cotone rosso, riporta la parola “Remember“, un messaggio che non vuole alimentare odio ma conservare la memoria di Cipro, come era prima e come è oggi. Un monito alla valorizzazione della sua identità attraverso la memoria.

Ogni sacco, riempito di sabbia di entrambe le metà, rappresenta il corpo e la pelle di ogni cipriota e i punti di ricamo sono come punti di sutura eseguiti su una ferita lunga 180 km. Con il passare del tempo il ricordo è divenuto cicatrice ma il dolore non si è mai attenuato, se non nell’apparente assuefazione dell’indifferenza del circo mediatico. L’atto della perdita di sabbia rappresenta la memoria di una persona che si svuota e ne asciuga la passione. Nel gesto performativo, gli artisti Laura Mega e Vassilis Vassiliades hanno poi messo sottovuoto ogni sacco di sabbia, per preservare le tracce di una memoria quasi perduta, come fosse l’ultimo sforzo, anche quando ogni speranza è svanita. Il progetto Cyprus Memory è stato finanziato dall’Unione Europea e dal Goethe Institut attraverso il Grant – Culture Moves Europe – Second Call for Individual Mobility of Artists and Cultural Professionals 2023-2024.

 

Chiara Modìca Donà dalle Rose