Il “saor”: più che un piatto, una tradizione della Venezia marinara

Si può fare con le sarde ma anche con i gamberoni e i filetti di pesce. Questo tipico condimento dell'alto Adriatico regala a tutte le pietanze un inconfondibile sapore agrodolce

Il “saor”: più che un piatto, una tradizione della Venezia marinara

Il “saor”: più che un piatto, una tradizione della Venezia marinara

Si può fare con le sarde ma anche con i gamberoni e i filetti di pesce. Questo tipico condimento dell'alto Adriatico regala a tutte le pietanze un inconfondibile sapore agrodolce

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Giuseppe “Bepo” Maffioli lo definiva “il vero cibo dei marinai”. Il celebre gastronomo veneto  -nonché scrittore, attore e tanto altro ancora- che era uno che di buona tavola se ne intendeva, aggiungeva: “nonché scorta indispensabile per marinai di terraferma”.

Stiamo parlando del “saor“. Un piatto che è una autentica tradizione a Venezia ma anche Pellestrina, Chioggia e negli altri porti dell’Adriatico settentrionale. Una tradizione che nasce da lontano, da quando le navi della Serenissima Repubblica solcavano le rotte mediterranee dirette ai porti d’Oriente ed i marinai veneziani avevano necessità di imbarcare viveri che fossero allo stesso tempo sostanziosi e di lunga conservazione.

I celebri “baicoli“, i biscotti dolci e secchi dei dogi che ancora si consumano nella città lagunare, ne sono un esempio. Ma il monarca dei piatti tradizionali da barca resta sempre lui: il saor. Termine che in dialetto veneziano significa “sapore”. Le ricetta, come tutti i piatti tradizionali, è molto semplice e povera ma, sempre come tutti i piatti tradizionali, non per questo meno saporita.

Il saor si accompagna solitamente alle sarde, che era il pesce per eccellenza dei pescatori, che le tenevano per sé mentre destinavano alla vendita le prede più pregiate e redditizie. Ma questo condimento può essere utilizzato tranquillamente per insaporire gamberoni, filetti di orata, di branzino e altre specie ittiche. Nel trevigiano – e dove altro se no? – lo utilizzano anche per arricchire il prelibato radicchio locale. Nel triestino mi è capitato di vederlo anche abbinato alle capesante. Ma quest’ultima soluzione, a mio modesto parere, è una eresia bella e buona: de gustibus…

Ecco comunque la ricetta per quanto riguarda le sarde, partendo dalle proporzioni che sono sempre di due a uno. Due chili di cipolle per ogni chilo di sarde. Le cipolle da usare sono quelle bianche anche se alcuni palati delicati preferiscono usare quelle rosate che risultano meno invadenti. Poi dovete avere in cambusa abbonante olio di semi per la frittura, sale e farina quanto basta, un po’ d’aceto, un cucchiaio di pinoli, due di uvetta e qualche grano di pepe.

La preparazione non risulta affatto complicata. Le sarde (la ricetta classica le adoperava intere, con tanto di testa ma oggi si preferisce levare gli spini e lasciare solo la coda per evitare che i filetti si rompano) vanno infarinate leggermente e quindi scottate sull’olio di semi ben caldo. Con la farina ricordatevi di mescolare anche un po’ di sale. Non friggetele del tutto le sarde e lasciatele morbide. Conclusa l’operazione, passate l’olio per togliere i residui di frittura ed usatelo per soffriggere le cipolle tagliate a fette. L’olio delle sarde conferirà alla cipolla il caratteristico colore brunito.

A metà cottura mettete poi l’aceto e, verso la fine, aggiungete in abbondanza uvetta, pinoli e qualche grano di pepe. In alternativa potete usare una cucchiaiata di zucchero al posto dell’uvetta e del vino bianco al posto dell’aceto, se siete tra quelli che preferiscono i sapori delicati. E se non siete dei veri marinai, come direbbe Bepo Maffioli! Quindi sistemare a strati su una terrina, sarde e cipolle fino ad utilizzare tutto il preparato. Non cedete alla tentazione di portare tutto in tavola ma lasciate macerare il piatto almeno un giorno. Meglio due. Abbinateci sempre qualche fetta di polenta bianca abbrustolita.

Ecco qua: il saor servito! Più che un piatto, una tradizione al gusto agrodolce di cipolla. Una tradizione da compartire sempre con la famiglia, gli amici e il vicinato. Chi fa le sarde a Venezia, non scende mai sotto il chilo – che saor sarebbe altrimenti? – e non trascura mai di portare un assaggio ai conoscenti. Quando sento il caratteristico odore di questo piatto, nella calle sotto casa mia, so già che domani mattina quella santa donna della mia vicina busserà al mio uscio con un piatto in mano.

Non c’è osteria degna di questo nome, tra calli e campielli, che non proponga come cicchetto oltre al tradizionale baccalà mantecato e ai “folpetti”, anche una sarda o un gambero sotto saor. E poi che Redentore sarebbe senza un piatto di sarde in saor da gustare in barca in attesa dei celebri fuochi e nelle tavolate in campiello e in fondamenta?

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