La strana vicenda del piroscafo Etnea
Il piroscafo Etnea era una nave in ferro lunga 61 metri x 8,7 e dotata di un motore con 90 cavalli di potenza e di una singola elica
Il piroscafo Etnea era una nave in ferro lunga 61 metri x 8,7 e dotata di un motore con 90 cavalli di potenza e di una singola elica
Quella del piroscafo Etnea è una storia di mare come tante, che racchiude però due questioni particolari, solo in parte chiarite e non di poco conto: il nome del relitto e le cause dell’affondamento. Molti anni fa mi trovavo a Lussino, in Croazia, e dei subacquei locali mi proposero di immergermi sui resti di un mercantile austroungarico affondato presso l’isola di Unije durante la Grande Guerra: il Tihany. La sua notorietà, mi spiegarono, derivava da un documentario della televisione jugoslava intitolato “I segreti dell’Adriatico”, che nel 1975 aveva mostrato i resti del mercantile affondato nel febbraio 1917 dopo essere finito contro uno scoglio solo parzialmente emerso. Montò il mare, come capita, e pochi giorni dopo ritornai a casa rinunciando all’immersione.
Nell’agosto del 2024, dopo molti anni, mi trovavo di nuovo in Croazia, a Medulin, dove un centro immersioni locale mi invitò a fare un’immersione sul relitto dell’Etnea/Tihany. Rimasi perplesso dal doppio nome: cosa significava? Il diving non fu chiarissimo nella risposta ma questa è poi risultata semplice. Non molti anni fa, infatti, dei subacquei montenegrini avevano ritrovato il relitto di una nave affondata un centinaio di anni prima vicino all’isolotto di Mamula, presso le Bocche di Cattaro. Per una volta erano stati davvero fortunati, ritrovando la campana della nave, sulla quale vi era inciso il nome: Tihany. La nave di Unije non poteva quindi essere quella così identificata per anni e tra gli appassionati iniziò la caccia al suo vero nome, continuata fino a quando alcuni esperti croati e italiani giunsero alla più probabile attribuzione, quella dell’Etnea.
Il piroscafo Etnea
La caccia alle notizie che identificano una nave affondata è spesso difficile e simile al lavoro di un cacciatore che segue le orme nella savana o a Pollicino con le briciole di pane. Per una volta però le ricerche sul Lloyd Register e altre fonti dell’epoca non sono state a carico mio e posso solo ringraziare coloro che mi hanno preceduto e hanno voluto rendere pubblici i risultati delle ricerche in articoli e canali differenti.
La nave fu costruita nel 1870 nel prolifico cantiere navale di W. Doxford & Sons della cittadina di Pallion, nel Sunderland britannico, e fu varata col nome di Ernest per l’armatore Fenwick & Co. Era una nave in ferro, forse inizialmente a vela e motore (come sembrerebbe indicare il Lloyd Register), lunga 61 metri x 8,7 circa e dotata di un motore con 90 cavalli di potenza e una singola elica. Era stata progettata per trasporti di piccolo cabotaggio lungo le coste inglesi e subì diversi lavori di modifica e riparazioni che la ingrandirono leggermente, fino a portarne la stazza lorda a 726 (o 745) tonnellate. Nel 1889 fu venduta all’armatore britannico DW Stibart e quindi a JT Hutchins, mentre nel 1894 fu acquistata dalla Società Anonima Agrumaria Etnea di Catania, come risulta anche dal Registro Italiano per la Classificazione dei Bastimenti dello stesso anno, e destinata al trasporto di arance. Da loro non fu utilizzata per molto tempo, perché affondò presso lo scoglio di Skolijc, davanti al paese di Unije, l’8 novembre 1894.
L’affondamento
Non è chiarissimo il motivo dell’affondamento, che rimarrà probabilmente un mistero. L’ipotesi più semplice è quella di un improvviso fortunale, che avrebbe spinto la nave contro le rocce dell’isolotto, o piuttosto di un errore di manovra. La dinamica però non è chiara. La rotta doveva comportare uno scalo a Unije, perché altrimenti la nave sarebbe passata al largo dell’isola. Allo stesso tempo la presenza dello scoglio era ben nota: era visibile a occhio nudo durante il giorno e illuminato dal faro durante le ore notturne. In più, i giornali dell’epoca non sembrano registrare cattivo tempo o improvvise tempeste.
Dal relitto pende poi verso il fondale la catena dell’ancora, come se il capitano avesse voluto far incagliare la nave per non farla affondare. Infine, il piroscafo si trova con il lato di babordo a filo della parete che precipita ma questa parte non è rovinata come un terribile urto contro gli scogli potrebbe far supporre. Le sovrastrutture di coperta in legno sono scomparse durante questi 130 anni. E’ stata l’azione corrosiva del mare o un incendio a bordo? E dove sono finite le doghe di legno che costituivano il carico della nave? Svanite nel tempo trascorso sotto la superficie o scaricate in precedenza? Non lo sapremo mai.
L’immersione
Vengo messo in coppia con un bravo subacqueo padovano in versione tecnica, poco felice del mio mono da 15 litri. Riusciamo però a legare grazie alla comune passione per il mare e le storie sommerse e a non darci fastidio a vicenda sotto la superficie. Niente guida ma spesso capita così in Croazia, anche se l’uscita avrà un costo folle per quanto offerto dal diving: la bombola e il lungo trasferimento (niente cibo e anche l’acqua a pagamento). Il pianoro sottomarino che incontriamo appena scesi lascia presto il passo alla parete dritta come una lama di coltello, intrapresa la quale già da una decina di metri di profondità risulta visibile il relitto, che si intravede attraverso una nuvola di saraghi fasciati molto comuni da queste parti.
L’Etnea è poggiato in assetto di navigazione con un’inclinazione verso tribordo di circa 45 gradi e noi ci dirigiamo verso la poppa di tipo clipper, scendendo poi a 38 metri, fino ad arrivare alla posizione dove si trovava l’elica, scomparsa però negli anni trascorsi sul fondo del mare. Proseguiamo oltre la poppa, perché qualcuno ha avvertito il mio compagno della presenza dei resti di un antico relitto di epoca romana databile al I secolo, dal quale le anfore più integre sono state asportate ma del cui carico rimangono ancora vari frammenti. In breve siamo però costretti a rientrare verso l’Etnea, perché la visibilità sul fondo limaccioso pare peggiorare sensibilmente: non ci siamo sagolati e nessuno dei due si è mai immerso da queste parti.
Ritornati su di esso, risaliamo le lamiere fino a giungere al ponte semidistrutto e da lì ci permettiamo delle esplorazioni nelle ampie e luminose stive. In quella di poppa è presente un’elica di rispetto o che faceva parte del carico della nave. Dappertutto spugne gialle o di mille altri colori rendono luminoso l’ambiente, con diversi pesci che vivono tra le lamiere, fra cui una murena e diversi scorfani. Sul ponte ci sono diversi argani a vapore che servivano per sollevare il carico e che danno un’immagine particolare al relitto, passando vicino ai quali giungiamo infine alla prua affilata, tipica dell’epoca.
La nave, insomma, è ancora in buono stato dopo 130 anni dall’affondamento e sembra voler ancora mantenere qualche alone di mistero. Viste le condizioni generali e la vicinanza al paese di Unije si può presumere che l’incidente non abbia causato vittime. Ne risulta comunque un’immersione affascinante, che meriterebbe più tempo o di ritornare in un’altra occasione per rivederla con occhi più esperti, magari dopo aver ammirato i resti del vero Tihany.
Argomenti: relitti