La storia del sommergibile Sebastiano Veniero, dal tragico affondamento all’omaggio di una immersione in saturazione di 104 ore condotta dalla Marina Militare
Inabissatosi nel 1925 a causa di una speronamento e poi dimenticato, lo scafo fu ritrovato da Enzo Maiorca nel 1993 al largo di punta Passero
La storia del sommergibile Sebastiano Veniero, dal tragico affondamento all’omaggio di una immersione in saturazione di 104 ore condotta dalla Marina Militare
Inabissatosi nel 1925 a causa di una speronamento e poi dimenticato, lo scafo fu ritrovato da Enzo Maiorca nel 1993 al largo di punta Passero
Una immersione in saturazione per ricordare uno dei padri della subacquea italiana, Enzo Maiorca, scomparso poco più di un anno fa e la tragica fine del sommergibile Sebastiano Veniero, affondato nell’azzurro mare di Sicilia il 26 agosto 1925. A scendere sino a 52 metri di profondità sono stati gli esperti subacquei di Comsubin, il Comando Subacquei ed Incursori della Marina Militare italiana, supportati dalla nave Anteo.
Con loro, ospite d’onore, la figlia di Enzo Maiorca, Patrizia. L’operazione, durata ben 4 giorni e 8 ore (per questo si è resa necessaria la tecnica della saturazione) si è svolta nel giugno dello scorso anno ed è stata seguita anche da alcuni esperti sub della Soprintendenza che hanno provveduto a verificare lo stato di conservazione del relitto ed a mappare il fondale.
Una storia come quelle che solo il mare ci sa raccontare, questa che ha visto incrociarsi il Sebastiano Veniero con un esploratore degli abissi entrato oramai nel mito come Maiorca. Una storia di relitti dimenticati, epiche imprese e scoperte sensazionali. Una storia che, come tante altre, comincia con una tragedia: quella dell’affondamento del Veniero con tutto il suo equipaggio.
Sommergibile di media crociera, classe Barbarigo, della Regia Marina Militare, il Sebastiano Veniero fu varato subito dopo la fine della Prima Guerra Mondiale. Non partecipò mai a conflitti e fu utilizzato solo per l’addestramento. E così stava facendo quel tragico 26 agosto del 1925. Il sommergibile era salpato da Portoferraio, nell’isola d’Elba, due giorni prima per raggiungere capo Passero, l’estrema punta sud-orientale della Sicilia, al comando del capitano di fregata Paolo Vandone. La sua missione era simulare un agguato ad altre due navi della Regia Marina che avrebbero incrociato quelle acque nel momento prestabilito ed innescare una esercitazione militare.
Ma l’agguato simulato non avvenne mai. Quando le due navi militari incrociarono capo Passero, del Veniero non v’era traccia. Il sommergibile era svanito nel blu con tutti i suoi 48 marinai dell’equipaggio e le ricerche dello scafo e dei superstiti non dettero nessun risultato. Costanzo Ciano, ministro delle comunicazione dell’allora regime fascista, condusse le indagini sulla fine del sommergibile e scoprì che il piroscafo Capena, appartenente alla società di Navigazione Roma, era transitato per quelle acque e aveva subito un incidente cozzando contro qualcosa di duro a pelo d’acqua.
“Sulle prime pensammo ad un colpo di mare“, dichiarerà durante il processo il comandante del Capena, il capitano di lungo corso Baldassarre Longo. Un urto violento ma senza effetti per il piroscafo, tanto che il capitano Longo non ritenne necessario neppure fermare le macchine. Ma gli esami condotti in seguito sulla carena della nave confermarono che l’urto era avvenuto contro una parete di bronzo. Un materiale dello stesso tipo di quello con era stato costruito il Veniero. Fu presumibilmente quell’urto a spezzare il sommergibile italiano ed a trascinarlo nell’azzurro fondale mediterraneo insieme a tutti i suoi 48 marinai.
La notizia suscitò grande scalpore nell’opinione pubblica del tempo ed i giornali scrissero i proverbiali fiumi di inchiostro su quello che chiamarono il mistero del sommergibile Sebastiano Veniero. Chiamata a giudizio, la società Roma venne assolta con formula piena da ogni responsabilità, in quanto il sinistro era avvenuto fuori delle acque interdette dalla regia marina per le esercitazioni. Il regime fascista fece in modo da insabbiare tutta la vicenda, poco compatibile con l’ostentata potenza della sua marina militare. E così il Sebastiano Veniero, dopo essere sprofondato in mare, sprofondò anche nella memoria degli uomini e fu dimenticato.
Chi non dimentica mai è il mare che continua ad affascinare con i suoi misteri e le sue narrazioni coloro che lo vogliono ascoltare. Uno di questi era senz’altro Enzo Maiorca. Il grande apneista aveva sentito i pescatori della sua natia Siracusa raccontare di un “qualcosa” che tratteneva e danneggiava le reti che i pescherecci lanciavano in un punto a circa sei miglia da capo Passero. E per sapere cosa era quel “qualcosa” non restava che una sola strada: quella di immergersi. Maiorca aveva saputo dell’esistenza di un sommergibile chiamato Sebastiano Veniero da un vecchio lupo di mare siciliano, Armando Santoro, che aveva conosciuto a Cuba, dove l’apneista si era recato per battere uno dei suoi tanti record. La storia delle sue immersioni sul relitto che ancora conteneva i resti dei 48 marinai e del suo riconoscimento definitivo avvenuto nel 1993, Enzo Maiorca la racconta nel suo libro “L’ultima immersione. Il ritrovamento del sommergibile Veniero”, edito da Mursia.
Ma l’ultimo capitolo della storia del Veniero, Enzo Maiorca non lo ha potuto scrivere. Ed è quello tracciato dai subacquei della marina che, 92 anni dopo l’affondamento e dopo un anno e poco più della scomparsa dell’apneista siciliano, hanno voluto rendere omaggio ad entrambi scendendo sino al relitto. Un’occasione per sperimentare la tecnica delle immersioni in saturazione con le quali i subacquei possono non soltanto raggiungere profondità di 300 metri ma anche rimanervi per il tempo necessario a condurre lavori che richiedono una lunga permanenza sul fondale.
“Per poter condurre tali operazioni – si legge in una nota diffusa dalla Marina – occorre creare un microclima artificiale, a base di elio, dove vivono per più giorni gli operatori subacquei, raggiungendo così la saturazione dei loro tessuti e consentendo di non avere limiti temporali alla quota di lavoro”. Magari ne parleremo più diffusamente in un prossimo articolo.
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