Alla scoperta del relitto del Romagna nell’Alto Adriatico

Non si tratta di un’immersione facile perché spesso si trovano forti correnti e una visibilità quasi "lacustre"

4 September 2023 | di Paolo Ponga

Coloro che frequentano le acque dell’Adriatico sanno quanto differisca la costa occidentale da quella orientale. Una è caratterizzata da un lento e digradante fondale sabbioso che in superficie si riflette con ampie spiagge, l’altra è contraddistinta da roccia, scogli e alberi che arrivano fino al mare. Da molti, poi, l’Alto Adriatico è considerato poco più di un grande lago, con acque calme e tranquille durante tutto l’anno. In realtà non è sempre così: a volte spirano venti fortissimi, in grado di causare spaventose mareggiate.

Uno di questi è la bora, che può raggiungere elevate velocità di punta ma che, spirando dal primo quadrante, di solito non ha traversia sufficiente a generare onde pericolose. Quello più temibile è in realtà lo scirocco, che soffia da sud-est e può usufruire di una traversia di quasi 1.000 chilometri, in grado di generare onde di 12 metri d’altezza con una violenza spaventosa, in grado di affondare una nave moderna come dimostra la tragedia del “Romagna” avvenuta durante il secolo scorso.

Non è stato semplice scrivere di questa nave per tre motivi: l’immersione non è delle più agevoli, anche se a profondità non proibitive, il ritrovamento delle notizie che portano al racconto dell’affondamento non è stato immediato e parlare di una sciagura che ha causato vittime civili lascia sempre un senso di imbarazzo e pudore.

La storia

Nel 1908 i fratelli Andrea e Pietro Cagnoni costituirono, con altri soci, la “Società Romagnola di Navigazione“, una compagnia armatrice che sostituiva la precedente “Sansone Forlì” e aveva lo scopo di collegare Ravenna con l’isola di Cherso, Trieste e Fiume, allora facenti parte dell’Impero austro-ungarico. La società, dopo varie vicissitudini, è arrivata ai giorni nostri con la denominazione di “Mediterranea di Navigazione Spa” e con sette modernissime navi si occupa del trasporto di fluidi in giro per il mondo.

Romagna (fonte: Mediterranea di Navigazione Spa)

All’inizio del secolo scorso i mercantili erano ben diversi ma non la voglia di modernità della compagnia. A cavallo tra il 1910 e il 1911 fece infatti costruire, presso i Cantieri Navali Riuniti di Ancona, la prima nave a motore diesel italiana, una delle primissime al mondo: la Romagna. Si trattava di una motonave di 678 tonnellate di stazza lorda, lunga 57,63 metri x 8,03 x 3,06 e dotata di due motori diesel a due tempi reversibili da otto cilindri a 35 atm, costruiti dalla ditta Fratelli Sulzer a Winterthur, in Svizzera. Le sue due eliche la spostavano attraverso l’Adriatico carica di prodotti alimentari e di passeggeri.

L’affondamento del Romagna

Era una grande novità rispetto alle navi a vapore e la leggerezza dei nuovi motori divideva in due fazioni gli esperti: alcuni plaudevano alla nuova tecnologia, altri nutrivano dubbi sulla stabilità dei vascelli. Il 24 novembre 1911 alle ore 21.30 il Romagna, al cui comando si trovava il capitano Speranza, salpò da Porto Corsini, presso Ravenna, con destinazione Trieste. Probabilmente il capitano era a conoscenza dell’arrivo di una tempesta ma confidava nella robustezza della nave varata da poco, nell’efficienza dei suoi innovativi motori e nella necessità di consegnare uomini e merci come stabilito dalla tabella di marcia.

Decise quindi di iniziare il viaggio nonostante il cattivo tempo incombente. A bordo c’erano 46 passeggeri, compresi donne e bambini, tutti di nazionalità italiana, tre macchinisti fuori servizio e 21 uomini dell’equipaggio, oltre ad un carico di sacchi di riso (grano secondo altre fonti), barattoli di conserva di pomodoro e altro riso stipato in coperta. Alle due di notte la nave venne raggiunta dall’uragano, che aveva una forza inaspettata, e cavalloni spaventosi presero a farla rollare in maniera orrenda. I passeggeri erano terrorizzati e il capitano li fece radunare sovracoperta, nella sala d’aspetto, dove ogni tanto un colpo di mare li faceva rotolare per terra. Gli ultimi momenti di vita della nave si svolsero in maniera convulsa e vennero riportati dai pochi sopravvissuti.

Si era formata una falla che i marinai non riuscivano a trovare e le pompe non erano in grado di svuotare le stive dall’acqua. Buttarono quindi in mare il carico poggiato sul ponte ma l’operazione non fu sufficiente a salvare la nave. Probabilmente il riso era stato caricato male e si spostò sul lato di babordo, facendola inclinare. Poi si spensero le luci e nel buio si udì un terribile “crack” e un urlo: “si salvi chi può!”. Gli uomini cercarono di mettere a mare due scialuppe: la prima si perse tra i marosi, mentre sulla seconda presero posto solo otto uomini dell’equipaggio, compreso il primo ufficiale Gino Rambelli. La regola “prima le donne e i bambini” non fu seguita dai marinai del Romagna, che pensarono solo alla loro pelle.

Come spesso capitava a quei tempi i passeggeri ebbero anche grosse difficoltà a trovare i giubbotti di salvataggio, tenuti sottochiave per non farli utilizzare come sedili dalle classi meno abbienti. Ercole Savorani, titolare del Caffè Fabris di Trieste, riuscì a recuperarne un paio, per sé e per suo figlio di cinque anni: si tuffarono fra i marosi e vennero fortunosamente recuperati dalla scialuppa sopravvissuta al disastro. Alle prime luci dell’alba il piroscafo si inabissò, fra Orsera e Rovigno, a 12 miglia dalla costa, portando con sé la vita di 60 persone sulle 70 imbarcate. La scialuppa con i sopravvissuti fu recuperata durante la mattinata dal piroscafo austriaco Tyrol del Lloyd, con i 10 occupanti ancora scioccati dalla tragedia.

Il relitto

Intorno al 1991 venne ritrovato il relitto della nave, che ora viene visitato saltuariamente dai subacquei. Non si tratta di un’immersione facile perché, a parte la profondità di una quarantina di metri, spesso si trovano forti correnti e una visibilità quasi “lacustre”, complice la probabile presenza di una fonte d’acqua dolce che abbassa anche la temperatura sul fondo, portandola ad agosto a 14 gradi. In più ci si trova completamente in mezzo al mare: nessuna costa è visibile, nemmeno lontanamente.

Io ho la fortuna di uscire con il bravissimo Roberto Cafolla del Rovinj Sub di Rovigno, in Istria, che conosce alla perfezione queste acque. Sul gommone ci sono dei subacquei tecnici veneti molto “aggressivi”, altri tecnici in versione ricreativa come me e un bravissimo croato esperto dei relitti della zona che ci racconta alcune notizie sulla storia e sul relitto del Romagna. Il Caffè Fabris, ad esempio, esiste ancora, anche se i lontani discendenti l’hanno ceduto ad una società cinese.

Quando arriviamo sul posto scopriamo che è sparita la boa che indica il relitto, per cui la nostra guida lancia un piccolo ancorotto in quelle che dovrebbero essere le coordinate giuste, raccomandandosi di non attaccarsi ad esso e di non sollevare il sedimento. Un breve controllo all’attrezzatura e alla macchina fotografica e via, si parte verso il relitto. Quando raggiungo il fondo sono felice per la mancanza della temuta corrente, però mi accorgo in fretta che la visibilità risulta davvero scarsa, complice anche il fatto che i tecnici scesi poco prima di me stanno arando il fondo come fosse un campo di patate. Mi perdo così la vista di un paio di gronghi e soprattutto degli astici che si muovono tra le lamiere presenti sul fondale, fonte di battute di spirito nei giorni a venire.

Il vicinissimo relitto appare particolarmente avvolto dalle reti, che sembrano stringerlo in un forte abbraccio, ed è ricco di pesci, come è logico che sia, unica presenza in un mare di sabbia. In più è concrezionato da migliaia di ostriche, che sono andate a vivere sui resti metallici. Peccato che l’acqua sia verdognola e la visibilità davvero scarsa, tanto da farmi perdere i compagni sparsi intorno a me e da farmi sentire solo. Quando sono ormai convinto di dover utilizzare il reel e il mio pallone per risalire in superficie, intravedo un movimento verso il quale mi dirigo. È Roberto, che con grande destrezza ha ripristinato una sagola fissa sul relitto, facilitando di gran lunga il rientro verso il gommone.

È un relitto che non sono riuscito a godermi, del quale non sono riuscito a comprendere l’essenza, l’anima nascosta. Sembra una follia per chi non fa immersioni ma i relitti tante volte sembrano parlare: ti raccontano la loro storia, a volte tragica come questa, in altri casi più serena. Sembra che abbiano il desiderio di non essere dimenticati, così come i marinai che hanno lottato e sono morti su di essi. Ricordarli significa onorarne la memoria e imparare dagli errori commessi.

Questa è un’immersione che un giorno ripeterò volentieri: ora so dove cercare, cosa andare a vedere e come muovermi. Non è un’occasione perduta ma una conoscenza fugace per un secondo incontro più consapevole, nei confronti di una nave che durante la sua fine ha visto tanta sofferenza. Per ora posso dire di esserci stato, non di averla conosciuta. Per organizzare un’uscita su questo relitto posso certamente consigliarvi il diving che Roberto gestisce insieme ai bravissimi figli, mentre se avete voglia di conoscere altre storie di mare, relitti e immersioni non posso che rammentarvi il volume “Storie Sommerse – Esplorazioni tra i relitti“, edito da Il Frangente di Verona.

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