20 novembre 2023

Hamada, il relitto di Abu Ghusun

20 novembre 2023

Alla scoperta del relitto Hamada nel sud dell'Egitto

Alla scoperta del relitto Hamada nel sud dell'Egitto

8 minuti di lettura

È autunno inoltrato ma intorno al pulmino che rimbalza su una strada dissestata ci sono oltre 33 gradi e solo l’aria condizionata riesce a mitigare il caldo del deserto. D’altronde mi sto dirigendo a circa 70 km a sud di Marsa Alam, verso la baia di Abu Ghusun, con la vista che spazia dal giallo ocra della sabbia all’azzurro chiaro del mare, che muta in un blu profondo passata la barriera corallina.

È mattina e sono felice ma non è solo merito del sole e del mare, oppure di essere in vacanza. Lo sono perché il Blue Submarine Egypt Diving Center ha organizzato un’uscita su un relitto di cui non conoscevo l’esistenza. Le immersioni in questo luogo non sono così frequenti e solo con grande insistenza e grazie alla partecipazione dei torinesi Elisabetta ed Edoardo e di Daniele dalla vicina Svizzera sono riuscito a convincere il responsabile del centro a programmare l’uscita l’ultimo giorno delle mie vacanze. A farci da guida sarà il bravo Hussein Fares, subacqueo esperto e di grande simpatia. Cielo blu, mare calmo e buona compagnia: le premesse sono ottime.

Ci muoviamo, in realtà, con due mezzi, poiché a precederci c’è il pick-up con altri due ragazzi del diving e tutte le attrezzature. Dopo un’ora circa di strada facciamo un breve tratto di sterrato per arrivare alla spiaggia, che si trova all’interno del parco marino di Wadi el Gemal, e fermarci poi direttamente di fronte al mare. La vista è meravigliosa, tranne qualche lontana attrezzatura portuale, perché il luogo è vicino a un piccolo terminal di carico di fosfati e ad alcune casupole mal messe dall’altra parte della baia.

Qualche rifiuto di plastica gettato in giro è purtroppo visibile un po’ ovunque: la coscienza ambientalista è ancora lontana in questi luoghi. Tutti noi rimaniamo però affascinati dal colore pazzesco del mare, che diventa sempre più blu andando verso il largo e che contrasta con il deserto di sabbia e roccia che ci circonda. Tutti i sensi sono coinvolti. Il sole riscalda la pelle esposta, che viene accarezzata dalla brezza del mare, il profumo è quello che conosce chiunque ami il mare, mentre il silenzio è totale e viene interrotto solo da qualche camion di passaggio stracarico di merce, probabilmente generi alimentari destinati ai resort di Berenice oppure alla vicina base navale militare.

I ragazzi del diving center preparano un semplice riparo per cambiarci all’ombra e Hussein, con l’ausilio di una cartina, ci fa il briefing pre-immersione: dovremo attraversare un lungo tratto di sabbia per arrivare al reef sul lato meridionale dell’insenatura e poi nuotare tenendo la parete sulla destra fino ad arrivare ai resti del relitto. Problemi nessuno, ma bisognerà fare attenzione alla probabile presenza di pesci pietra, frequenti in queste acque. Dopo aver indossato le mute e l’attrezzatura, prendiamo in mano le pinne e le maschere, che indossiamo in acqua. Mi appoggio alla spalla di un compagno per indossarle e il gesto mi ricorda le innumerevoli immersioni fatte nei nostri laghi subalpini. Sorrido al pensiero: quanta differenza fra questo incredibile mare e il freddo delle acque dolci. Un veloce controllo, poi l’ok e scendiamo sotto la superficie del Mar Rosso.

La nave che andremo a visitare fu varata nel 1965 ad Aberdeen, in Scozia, presso i cantieri Lewis John & Sons Ltd., ed era un mercantile costiero in acciaio lungo 65,2 metri x 11 x 5,8 con una stazza lorda di circa 500 tonnellate. Era mosso da un motore diesel a 7 cilindri e un’unica elica che sviluppava 1.470 bhp, in grado di spingerlo fino a 12,5 nodi di velocità massima. Fu battezzata con il nome di MV Avocet (codice IMO – International Maritime Organization – n°6510758), con il quale operò per qualche anno lungo le coste delle isole britanniche, sotto la proprietà della General Steam Navigation Company. Dopo aver cambiato più volte armatore, venne venduta a delle società cipriote che via via ne mutarono il nome in MV Afroditi, Samarah e infine Hamada, quello con il quale è conosciuto ora il relitto. Nel 1986 venne venduta all’ultimo proprietario, una società dello Sri Lanka (maltese, secondo altre fonti), e destinata al traffico di merce nel Mar Rosso.

Il 28 giugno 1993 stava navigando verso Suez, trasportando un carico di granuli di plastica in sacchi (delle palline che costituiscono il materiale grezzo per la produzione dei polimeri) che aveva caricato nel porto saudita di Jeddah. Non è certa la causa dell’affondamento. Qualcuno ha riportato la notizia di un improvviso incendio scoppiato a bordo della nave, abbandonata poi dall’equipaggio e andata alla deriva fino a incocciare la barriera corallina. Un’altra fonte parla di una terribile tempesta, abbastanza inusuale in queste acque alla fine di giugno, contro la quale i marinai avrebbero lottato in ogni maniera, cercando di ancorarsi al di fuori del pericolo dato dalle vicine coste. Chissà se durante l’immersione saremmo riusciti a venire a capo del mistero del suo affondamento.

Dopo il tratto di fondo sabbioso, nel quale abbiamo avuto modo di trovare dei sottili pesci ago, un pesce ago fantasma, una piccola sogliola (con la quale è stato praticamente obbligatorio mettersi a giocare) e una colorata stella marina, iniziamo a percorrere la bellissima parete corallina. I coralli sono meravigliosi in questo luogo, di mille colori e forme, così come i suoi abitanti: tanti pesci piccoli di barriera che nuotano indisturbati in mezzo ai subacquei, donando un’emozione sempre immancabile, oltre a qualche carangide, delle murene e delle belle pastinache puntinate di blu, i trigoni così diffusi nel Mar Rosso.

Ovunque un brulichio di vita colorata: pesci angelo imperatore, chirurgo, balestra con i loro piccoli ma pericolosi denti, farfalla, unicorno, pesci istrice, palla e scatola, piccole cernie tutte puntinate, nuvole di castagnole. Poi lo sguardo passa su un piccolo banco di pesce azzurro, che ci circonda e poi scappa via veloce. Solo ogni tanto la visione di un corallo sbiancato riesce a mettere un po’ di ansia sul futuro di questa meraviglia. Incredibili le tridacne, per il loro numero ma soprattutto per le dimensioni di qualcuna di esse, davvero enormi.

Raggiunta la punta della baia, d’improvviso si comincia a distinguere la poppa del relitto, poggiata in assetto di navigazione sul lato di tribordo, con il corrimano ancora intatto. La profondità massima di soli 18 metri consente a qualsiasi subacqueo di poter visitare i resti della Hamada in totale serenità e sicurezza. Questa parte della nave è ancora in ottime condizioni, colonizzata solo dalle spugne e dai coralli, che hanno voluto farne la loro casa. Nessun segno di fuoco, né bruciature di alcun tipo. È ancora visibile addirittura un telefono, del quale prendiamo in mano a turno la cornetta per una telefonata immaginaria con l’armatore del mercantile o piuttosto direttamente con Poseidone, il dio del mare.

Oltrepassata la poppa, il resto della nave è spezzato in più tronconi e giace capovolto. Le tempeste invernali degli ultimi trent’anni devono aver colpito in più occasioni i resti sommersi. Quando arriviamo alla prua una nuova sorpresa: nell’occhio di cubia di babordo giace l’ancora, perfettamente incastonata al suo posto. Quindi il racconto della lotta contro la terribile tempesta e delle ancore a scavare il fondale per cercare di trattenere il mercantile non corrisponde alla realtà. Allora, qual è il vero motivo dell’affondamento?

Ovviamente il reef tagliente che deve essere penetrato nelle stive come un coltello nel burro, facendo poi uscire i granuli di polietilene che sono stati a lungo ritrovati lungo le spiagge di questo pezzo di costa. Ma la causa fu probabilmente disattenzione, stanchezza o distrazione da parte dell’equipaggio, che nella lunga notte d’estate aveva magari esagerato con l’alcol, sognando la famiglia lontana. Chissà.

Oggi rimane un’immersione davvero bellissima e poco conosciuta, in un tratto di costa dove queste sono sempre e solo di carattere naturalistico. La bassa profondità, la visibilità che arriva a circa 25 metri e l’acqua a 27 gradi donano una serenità non così frequente durante la visita di un relitto. L’unico rimpianto è che il tempo scorre sempre troppo veloce sotto la superficie. La bombola da 12 litri in alluminio non aiuta certamente per lunghe permanenze ma la bassa profondità e il senso di sicurezza ci hanno permesso di passare quasi un’ora sotto la superficie del mare. La seconda immersione verrà effettuata sul lato nord della baia, senza la presenza di un relitto ma con dei magnifici pinnacoli di corallo, una stupenda parete e tanta vita in mezzo ad essa.

Un grazie sentito ai miei compagni di immersione anche per le foto subacquee, a Hussein per la guida perfetta e per il costante sorriso (che si intuisce attraverso l’erogatore) e a Mak del BSE DC per l’organizzazione dell’uscita. Un particolare ringraziamento va poi al subacqueo svizzero Daniele Rodoni, autore di molte foto e del breve filmato sulla poppa del relitto, dove per una volta sono ripreso anch’io aggrappato al corrimano. E se vi piace leggere storie di mare, di uomini contro le avversità del destino e di immersioni fatte per vedere relitti in giro per il mondo, non posso che rimandarvi alla lettura di “Storie sommerse – Esplorazioni tra i relitti“, edito da Il Frangente di Verona.

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